Il Sudan del Sud, lo stato più giovane del mondo e, allo stesso tempo, tra i più martoriati. Da un conflitto interno che da dicembre ad oggi ha già mietuto circa diecimila morti. In realtà, esiste ancora un’inspiegabile reticenza verso l’uso del termine «guerra civile», si continua a far riferimento alle parole «scontri», «rappresaglie», perfino «pulizia etnica», ma non si passa oltre.

Forse perché i numeri delle vittime sono ancora lontani da quelli contati dall’ultima Guerra Civile con il Sudan di Khartoum, circa due milioni. Di fatto, però, le continue, reciproche uccisioni tra Dinka e Nuer, le principali etnie del paese, stanno insanguinando i confini nazionali: i primi – che rappresentano la maggioranza relativa della popolazione (un milione di abitanti sui dieci totali) – fanno riferimento all’attuale presidente della repubblica federale Salva Kiir Meyardit (62 anni), i Nuer, invece, sono i fedeli dell’ex vicepresidente, ribelle, Riek Machar (61).

I due avevano fatto parte, il secolo scorso, dell’esercito di liberazione del paese, avvenuta ufficialmente il 9 luglio 2011 dopo un referendum che sancì la definitiva secessione del Sud Sudan, nero e per la gran parte cristiano, con Juba capitale. Un’indipendenza su cui campeggiano i marchi della pressione statunitense e della diplomazia internazionale. Ma le gioie di un paese «libero», sono durate ben poco e i frazionamenti etnico-culturali accantonati durante l’opera di separazione da Khartoum, sono ben presto riaffiorati, in un paese in cui si muore di fame più che altrove in Africa e l’analfabetismo sfiora il 75%. Ma è pieno zeppo di petrolio, nel nord di paese, nei principali centri di Bentiu e Malakal, aree in cui lo scontro etnico è una maschera efficace per continuare a uccidere. Perché i pozzi fanno gola a tutti, Dinka e Nuer.

I conflitti tra le due fazioni sono (ri)comincati a ridosso dello scorso Natale, dopo una macerazione durata mesi: non passa molto dal giorno dell’indipendenza e Machar inizia ad accusare Kiir di essere un accentratore antidemocratico e a puri fini di lucro. Quest’ultimo risponde arrestando due ministri del governo di etnia Nuer, mossa che fa infuriare Machar e che lo induce a una feroce ribellione. Iniziano così le prime rappresaglie volte alla pulizia etnica dei Dinka che, a loro volta, rispondono per le rime.

A margine, le centinaia di migliaia di sfollati rifugiati nei compound Onu a nord del paese e sistematicamente presi di mira, torturati e uccisi come atti significativi della lotta. Machar (nel frattempo destituito dalla carica di vicepresidente) vuole e chiede con fermezza l’allontanamento volontario di Kiir dal paese in cambio del cessate il fuoco: ovviamente ciò non avviene e il 15 dicembre le truppe Dinka si scontrano a Juba con quelle legate a Machar. Dopo 15 ore di combattimento lungo le strade, si contano 500 morti e 800 feriti e se da un parte Kiir annuncia di aver ripreso saldamente in mano le redini del paese, dall’altra Machar continua a chiederne la resa.

Dai primi morti (a Natale) agli ultimi, altri 200: quelli di Pasqua, per l’ennesimo blitz. A Bentiu, dove il petrolio ribolle e gli sfollati aumentano. In mezzo, una tregua-farsa firmata il 23 gennaio dalle parti ad Addis Abeba. Intanto, l’Onu è sempre più inerme, come accadde in Ruanda a metà degli anni ’90. Un precedente che si staglia sempre più come un terribile incubo.