Erano gli anni Sessanta quando negli Stati uniti, la modern dance veniva destituita dalla sua ortodossia e riossigenata da un nuovo respiro legato alla socialità. Trisha Brown, Lucinda Childs, Simone Forti, Debora Hay e Yvonne Rainer, giovanissime danzatrici, si erano catapultate alla compagnia San Francisco Dancers Workshop di Anna Halprin, che impostata sul Life/Art Process, innescava nuove modalità di intendere il movimento.

Tra queste, si privilegiava l’interconnessione puntando a occasionali mix con letterati, musicisti e artisti visivi provenienti dall’area dell’happening e di Fluxus.
Forti si addentra perfino nella cultura psichedelica per scoprire nuove percezioni ed interagisce anche con Allan Kaprow, John Cage e John Gibson. Dunque la sua formazione proviene da un humus libertario e pulsante, che incapsula la sua ricerca a quelle di visionari sperimentatori come La Monte Young, Yoko Ono, Steve Paxton, Charlemagne Palestine, Peter van Ripe, Joan Jonas e Robert Morris (suo primo marito) tanto per citarne alcuni. La loro era la condensazione di un sogno avanguardistico e collettivo che con una forza dirompente si affacciava sulla scena statunitense e che fondeva il desiderio alla rivoluzione, poiché come scriveva Deleuze «Il desiderio fa scorrere, scorre e irrompe».
Simone Forti. Senza fretta, a cura di Luca Lo Pinto e Elena Magini, al Centro Pecci di Prato fino al 5 settembre, è una mostra situata, che insegue l’anomalo percorso della celebratissima pioniera italo-statunitense, partendo dalle sue origini.

Nata a Firenze nel 1935, è figlia di genitori ebrei dell’interland pratese. In seguito all’applicazione delle leggi razziali fasciste, è costretta a trasferirsi, a tre anni, insieme alla famiglia a Los Angeles, dove la coreografa, artista, scrittrice vive ancora. Icona sfuggente della post-modern dance evidenzia quanto lo slittamento di discipline affini siano conglobate in una espressività autonoma e polimorfa che si dirama per pratiche.
La sua pratica performatica è imperniata sul concetto di improvvisazione e casualità. Attraverso esse scardina le metodologie preesistenti e ricongiunge il filo tra arte e vita, attraverso coreografie che arridono a movimenti rubati all’urbanità, in un processo di reinvenzione del quotidiano. In più, la Forti sconfina in modo ellittico tra danza e suono, scrittura, fotografia, con un ricorso continuo alla musica ed al canto. Così si sottrae ai ditkat tradizionali, imperniati sulla perfezione, sull’espressività e sul virtuosismo tecnico.

Simone Forti sperimenta l’oggettiva presenza del corpo in un ripensato spazio scenico, che è quello infinitamente fluttuante della realtà. Il suo spazio di interazione si slabbra dalla pagina scritta, alla radio transistor sempre accesa, dalle onde del mare che la travolgono, al conflitto arabo/palestinese e ai riots di Black Live Matter. Il corpo (il suo e anche quello dei vari partecipanti) è il dispositivo privilegiato dell’essere nel mondo.

Questo pensiero frattalico è tradotto in una mostra esemplare, la prima in Italia così attenta, che ne articola tutte le concatenazioni e le rizomaticità, insistendo sul divenire molteplice di Simone. Una sintesi non scontata vista la «imponenza culturale» dell’artista. Le due enormi sale sono allestite per disseminazione. Accanto ai disegni in grafite Song of the Vowel’s, ai Bag Drawings (2020), alla scultura A Sculpture (1961-2015) si irradia la traccia sonora Sound Collage (2021) concepita appositamente dall’artista, che accompagna, il visitatore nella sua esplorazione ed è un immateriale scarto della cura che la Forti sente per il fruitore.

In questo contaminato proscenio vengono riproposte, settimanalmente, le performance storiche. Dalla quella di gruppo Huddle (1961) che è una sorta di metafora relazionale dello spazio civico, a Cloths in cui dietro a tre telai di legno si celano tre performers che fanno svolazzare dei teli colorati mentre intonano canzoni tratte dall’immaginario collettivo, a Sleep Wolkers / Zoo Mantras (1968) realizzata dall’osservazione degli animali rinchiusi nello zoo di Roma a Scramble (1970). Fino alla bellissima Rollers, in cui il lento rotolare dei corpi sul pavimento li relata allo spazio che li contiene. E si continua con il ciclo New Animations sia i disegni (1985-2012) che i video delle performance e attraverso cui Forti performa gli eventi del mondo che la toccano, aggirando la frenesia della comunicazione mediale. In mostra Mad Brook Farm (1986), New Animation with Manny The Rabbit, New Animation with Batyah Schachter e Church in Ocean Park (2010), Zuma News (2014) e A Free Consultation (2016). Commuove ed esalta al tempo stesso constatare come l’intensa artista, oramai ottantenne, con la sua energica leggiadria, abbia continuato a dedicarsi alla performance fino al 2018.
Basti guardarla in quella tenera epifania che è Simone Forti with Obstructions, nata come omaggio alla scomparsa di Robert Morris, alla Castelli Gallery di New York, sia pur tremolane ma impavida, si distende per terra, poi si arrotola, si avvolge e lancia per aria, come fossero dei coriandoli, quei mirabili feltri morrisiani.