Dimitris Papaioannou è probabilmente il maggior genio oggi della scena europea. Con la sua strumentazione da arte povera, con i suoi oggetti e materiali elementari, che paiono sottratti ad un cantiere, con un occhio, suadente e rapace, in grado di agguantare i linguaggi più diversi dell’arte contemporanea, crea le sue perfomance tanto esteriormente povere quanto mirabolanti, impregnate di un retaggio arcaico ma con uno sguardo alla fantascienza. Tutto questo grazie a performer straordinari quanto all’apparenza anonimi, in questo caso tutti in abito scuro, spiegazzato e segnato di impronte gessose sulle spalle. Anche lui, che come il mago di ogni favola si muove, dirige, sposta i cavi, porge il microfono (ai rumori si intende, non ci sono parole), novello Kantor, ma proiettato in un futuro postatomico, che pulsa, soffre e ansima già oggi.

ACCADE nella performance realizzata a Reggio Emilia per il Festival aperto, nell’antica fabbrica di vestiti Max Mara, oggi divenuta sede espositiva di una stupefacente raccolta d’opere d’arte davvero eloquente, in particolare degli ultimi 50 anni, la collezione Maramotti. Il cui ambiente centrale, che ospita lo spettacolo, cita a sua volta per l’occasione un altro grande occhio della contemporaneità, quel Christo noto per aver impacchettato grattacieli così come le Mura Aureliane a porta Pinciana, evocato qui dal cellophane opaco che avvolge, e cela protettivamente, le opere di quel piano di esposizione.
Sisyphus/Trans/Form è il titolo tripartito della creazione di Papaioannou. Costituita appunto di tre momenti, o suggestioni o situazioni, all’apparenza disparate e autonome, ma legate forse da una intima moralità. Un senso progressivo che come un gelido apologo indica possibili percorsi o transiti di una condizione umana, che neanche la forza più bruta e lo sforzo più sudato ostacola dal progettare e progredire. Il primo momento, il più cospicuo (filiazione diretta di un suo precedente Still Life) ha per «protagonista» un voluminoso parallelepipedo a metà tra il materasso di cemento e un muro che continua a sbrecciarsi. Tra il suo esterno e il suo interno un uomo lo trascina con la forza disperante di un Sisifo che mai non riesce a concludere e finalizzare il proprio sforzo. Il muro si scrosta, si scalfisce, quasi si sbriciola, perde pezzi e croste inquietanti. Ma dal suo cuore altre creature emergono, vi si rintanano, ne sporgono gli arti, in una lotta sempre più sovrumana. Gli arti dei performer si intrecciano, si scambiano, la loro combinazione partorisce «mostri» genetici. Mentre incessante prosegue la marcia indicata dall’impenetrabile guida dell’autore.

IL GIOCO si complica e allarga nel secondo frammento, dove sono appunto i «generi» a mescolarsi, sostituirsi, ricomporsi, sorprenderci. Anche gli attributi sessuali, ormai pura rappresentazione, passano impunemente dalla biancheria dell’uno a quella dell’altra. Non sono antichi valori e tabù a mettere in comune i generi e gli esseri umani, ma la fatica, il sudore, l’eterna condanna a perdere sempre più carattere e forma. La quale Forma, protagonista dell’ultima scena, sta nella capacità, astratta quanto sudata, di tenere letteralmente insieme un gran numero di assi di legno, per l’uomo appiattito contro la parete con il proprio corpo. Gioco di incastri, di equilibrio, di tensione e di forza. La memoria corre allo spettacolo creato da Papaioannou con la compagnia di Pina Bausch, quando un performer inanella su di se una dozzina e più di sedie, addomesticando il peso del mondo e la sua geometria.

VISIONI, lampi, colpi d’occhio che senza nessuna casualità si fanno suggestioni potenti per lo spettatore; senza morali o suggerimenti da offrire. Ma capaci di far scattare in ognuno qualche formidabile corto circuito. Un teatro che intriga, coinvolge, e anche sconvolge. Brividi da portarsi dietro, uscendo nell’umido serale mediopadano, con il piacere di averli vissuti, condivisi,e forse in qualche misura «acquisiti».