Una grande, grandissima emozione, di cui è difficile delimitare il campo, è quella che lascia al momento degli applausi e dei saluti Transverse Orientation, il nuovo grande spettacolo di Dimitri Papaioannou che apre al Politeama la sessione autunnale del Campania Teatro Festival (ma sarà tra poco anche a Torinodanza e al Festival aperto di Reggio Emilia). L’artista greco, sicuramente tra i maggiori protagonisti attuali dello spettacolo mondiale, intreccia come è suo solito danza e arti visive, citazioni classiche e visioni di futuri possibili, arte contemporanea e figurazioni prese dalla mitologia che nel suo paese ebbe culla e fondamento. Il risultato è grande teatro, dove ogni spettatore è condotto a identificare un proprio percorso, un ventaglio di valori e citazioni, una scala di emozioni che sarà di sicuro personale e diversificata. E tutto questo, davvero un «orientamento trasversale», viene realizzato usando i materiali di scena «poveri» che nel corso dei suoi titoli ci ha fatto conoscere (legno, cartone, materiali espansi di forme geometriche, e soprattutto l’acqua, pericolosa e violenta quanto amniotica e vivificatrice a seconda dell’uso che se ne fa) e i corpi dei suoi performer. Ovvero una danzatrice eccelsa, un’altra figura femminile di inquietante «normalità», e sei uomini danzatori e non solo, pronti ad ogni fatica ma capaci di ogni più raffinata stilizzazione (tra loro una riconoscibile figura proveniente dall’universo Bausch, il danzatore italiano Damiano Ottavio Bigi).

ALL’INIZIO, figure nere microcefale e dai grandi corpi sembrano disegnare un paesaggio alla Magritte, ma ben presto lo stringersi delle pareti e dei percorsi rendono protagonista un toro di grossa stazza e straordinaria mobilità, che per tutto il tempo campeggerà come Minotauro in quel Labirinto di rapporti tra tenerezza e aggressività. Una creatura quella leggendaria di Creta, che è uno dei miti fondanti della cultura antica, e che è qui capace di muoversi, far muovere, e perfino contenere e nascondere all’interno delle sue proprie membra, quella umanità circostante, prestante quanto «sbandata» dalla stessa propria energia.
Ma queste sono solo supposizioni da singolo spettatore, perché il percorso spettacolare come una macchina implacabile offre suggestioni, diramazioni di percorso e illuminazioni di pensiero a ritmo continuo. Con mano leggera, le forme e le sfumature cromatiche mutano, tanto che in quel paesaggio di violente geometrie «cannibalesche», con paradosso solo apparente si conformano sagome e tratti di pittura rinascimentale italiana, profili di madonne leonardesche o fanciulle botticelliane. Un colpo «basso», si direbbe, e invece plausibile in quella rincorsa del segno, e del senso, per dare individuabile fisicità a quegli incubi «trasversali».

FINCHÉ, tra quei corpi mischiati e ibridati, espliciti nella loro composizione di maschile e femminile che ne moltiplica il mistero (e l’individuazione eventuale di dove possa consistere il bene, o il male), riprende la battaglia fragorosa del toro, e anche degli uomini attorno a lui. Una vittoria impossibile per ognuno, come suggerisce lo stupefacente finale. Tutti i montanti che costituivano il pavimento del palcoscenico vengono divelti dai performer (come prima era toccato alle pareti di cui erano franati i cospicui blocchi gommosi) per andare a costituire un’ampia parete di «rocce» legnose tutt’intorno, un vero bacino dove finalmente può irrompere l’acqua di cui si diceva. Su quella visione paradossale di un lago in palcoscenico, con tanto di sorgente che l’alimenta, cala il sipario, che come il dissolversi di un incubo non ne chiarisce con lucidità le cause. Incubi e sogni si sono rincorsi e rovesciati durante tutto lo spettacolo, e Papaioannou ce l’ha mostrato in modo davvero «tangibile», con emozioni molto profonde. Non sorprende che ai ringraziamenti finali, con i suoi magnifici performer, si sia presentato anche lui, e apparisse anche lui, per una volta, visibilmente emozionato.