Un paese ci vuole, ha scritto sul bianco di una pagina del romanzo La luna e i falò Cesare Pavese. Ed è questo il titolo scelto dal siciliano Antonio Dimartino per il suo terzo disco (Picicca/Sony Music) dopo Cara maestra abbiamo perso e Sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile. Un titolo, ma soprattutto un’idea che interpreta e amplifica il prosieguo del pensiero di Pavese:«Un paese ci vuole non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Di partenze, ritorni, radici, ricordi, orizzonti ben oltre i confini di Misimleri, provincia di Palermo, ventimila anime, il luogo dove Antonio è nato, cantano le dodici tracce. A catturare subito l’attenzione di chi ascolta è il felice impasto tra sonorità melodiche inossidabili alla facilità ruffiana e i testi: belli e, sovente, di una metrica non facile da stendere sul tappeto musicale. Eccellenti i soliti complici di Dimartino: Angelo Trabace (cori, pianoforti, synth) e Giusto Correnti (batterie, cori e percussioni). Gli ospiti mettono in campo violino, violoncello, slide guitar, tromba, marimba e altro ancora. Special guest Francesco Bianconi, Baustelle, coautore dei testi e voce con Dimartino in Una storia del mare, e Cristina Donà, perfetta interprete di Calendari.

Fin qui il disco negli appunti di chi lo ha ascoltato. Ma cosa significa, per Dimartino, guardando a Pavese e a se stesso, Un paese ci vuole? «Sono nato negli anni Ottanta, e alla fine di quel periodo a Mislimeri c’è stata una lunga guerra di mafia. Per questo con il il mio paese ho avuto sempre un rapporto controverso che è al tempo stesso di legame e di distanza. Negli ultimi tempi ho viaggiato molto e sono andato molto lontano. Lì mi sono reso conto che dovevo scrivere qualcosa che parlasse del posto in cui avevo vissuto, tralasciandone ogni visione negativa. Sono tornato a Misimleri e, parlando con mio nonno, ritrovando gli amici che avevo perso di vista, ho capito che un luogo, il paese, è un’idea pura».

Eccole dunque le parole di Dimartino: «per fare un paese ci vuole la dinamica del porto, cose che arrivano e all’improvviso se ne vanno». Spiega: «Molti paesi, specialmente al sud, sono divenuti solo approdi. Per una barca, o per chi in estate ci torna da emigrato nel Nord Europa. In tutti e due i casi si riparte. Il paese è stato anche il luogo dove approdava musica, penso agli anni ’90 senza internet e a me ragazzino, totalmente sconosciuta».

A proposito di musica: nelle tracce si sente molta melodia, la canzone italiana … «Da Modugno in poi, sporcature a parte: quella, per me è la canzone italiana. una strofa e un ritornello. Una struttura fissa, insomma, che ha avuto una sua evoluzione dai tempi di Modugno, ad esempio con Luigi Tenco e Piero Ciampi. Capaci di adattarla a loro, senza mai rinnegare la melodia. È quanto cerco di fare inserendo idee e variazioni senza rompere gli schemi. La canzone italiana corrisponde al mio modo naturale di comporre».

Niente da dichiarare è il sogno dell’assenza di frontiere; Da cielo a cielo, L’isola che c’è, La vita nuova sono feste per il santo e vite senza impennate; Una storia del mare è ‘Una ragazza di Roma che arriva ogni anno’. Dissonanze e distanze si annullano in I calendari, il brano di chiusura ‘Tu riconoscimi dagli occhi/ o dalle linee delle mani/ basterà’. «Puoi camuffarti dietro l’accento del nuovo posto in cui vivi, nasconderti dietro altre abitudini. Non farlo. Riconoscimi. Siamo nati nello stesso posto, nello stesso paese».