Un governo di «salvezza nazionale». Così, il vicepresidente brasiliano Michel Temer ha definito il suo governo ad interim che, per 180 giorni, definirà le sorti del paese.

Intanto, Dilma Rousseff – eletta presidente per la seconda volta nel 2014 con 54.500.000 voti – verrà processata per presunte irregolarità amministrative. Il Senato brasiliano ne ha deciso l’impeachment, votando a larga maggioranza un contestatissimo provvedimento, già approvato dalla Camera il 17 aprile. Un colpo di stato istituzionale, denunciano le sinistre di tutto il mondo. Quelle brasiliane, ieri hanno organizzato una gigantesca manifestazione al grido di «Fuori Temer» e «Temer golpista».

L’altroieri, erano oltre 40.000 ad accompagnare Dilma nel suo ultimo discorso da presidente. L’ex guerrigliera, bersaglio di attacchi maschilisti e reazionari portati avanti dai rappresentanti dell’ultima dittatura militare, si è rivolta ai cittadini senza nascondere la commozione.

Ha ribadito la sua innocenza e ha denunciato «la farsa giuridica e politica» messa in atto dalle forze conservatrici per colpire la democrazia. «Ho sofferto il dolore della tortura, il dolore della malattia e ora sento il dolore dell’ingiustizia – ha detto la presidente – Quel che più mi fa male è l’ingiustizia… Ma non mi arrendo. Guardo indietro a tutto quel che è stato fatto e guardo avanti a quel che c’è ancora da fare. Ho lottato tutta la vita per la democrazia, ho imparato ad aver fiducia nella capacità di lotta del nostro popolo. Confesso che non avrei mai immaginato che sarebbe stato necessario tornare alla lotta contro la dittatura in questo paese. Negli ultimi mesi, il nostro popolo è sceso in piazza per difendere i suoi diritti e per questo ho la certezza che la popolazione sarà dire «no» al golpe».

Poi, Rousseff si è rivolta agli alleati: «A quelli che si oppongono al golpe, indipendentemente dall’appartenenza di partito, chiedo di mantenersi uniti in questa lotta. Questa è una lotta permanente che richiede un impegno costante, non ha una data conclusiva. Si può vincere, ma dipende da noi. Dimostreremo al mondo che ci sono milioni di difensori della democrazia nel nostro paese. La storia – ha concluso – si costruisce con la lotta e sempre vale la pena di lottare per la democrazia, la democrazia è il lato corretto della storia. Non mi stancherò mai di questa lotta».

Il gabinetto di governo presentato da Temer indica con chiarezza con quali grandi interessi dovrà scontrarsi la democrazia brasiliana: quegli stessi con i quali il partito di Rousseff, il Pt, ha cercato di governare in questi anni, imbastendo coalizioni capestro nel frammentato panorama politico brasiliano (28 i partiti rappresentati).
Alleanze capestro che, a crisi già conclamata, il Partito del lavoratori ha dichiarato di voler recidere per aprire alla sua sinistra e ai movimenti, e promettendo un cambio di programma qualora vi fosse stato un nuovo gabinetto guidato da Lula da Silva. Le cose sono però andate diversamente, e – se la piazza non saprà imporre un cambio di indirizzo – Dilma verrà nuovamente «bocciata» dalla votazione finale tra sei mesi, e Temer governerà fino al 2018.

Di quale «salvezza nazionale» parla Temer? Prima di tutto quella dei corrotti come lui e il suo collega di partito, Eduardo Cunha, del centrista Pmdb. Cunha, sospeso dalla presidenza del Parlamento per decisione della magistratura, potrebbe così cavarsela una nuova volta, e oscurare la democrazia brasiliana con le potenti televisioni pentecostali che controlla. E la pletora di inquisiti – che ha giudicato Rousseff per presunte irregolarità amministrative, smontate da insigni giuristi – continuerà a governare nella più completa impunità. Nel gabinetto di Temer torna al potere l’opposizione guidata dall’ex candidato presidenziale Aecio Neves (anch’egli recentemente inquisito), benché bocciata dalle urne.

I ministeri passano da 32 a 22. Scompare il ministero per la Parità di genere e Uguaglianza di razza e per i Diritti umani, quello della Gioventù e della Cultura (incorporato ad altri).
Benché la Costituzione preveda che la presenza femminile dev’essere rappresentata per almeno il 30%, non c’è nessuna donna. Era dall’ultimo governo de facto ai tempi della dittatura – quello di Ernesto Geisel, dal 1974 al ’79 – che non succedeva così.

Nel secondo mandato di Rousseff – prima donna presidente del Brasile – c’erano sei donne su 39 ministri. E tuttavia, a votare l’impeachment contro la presidente è stato un Congresso in cui su 10 eletti, 9 sono uomini, gran parte dei quali le ha rivolto truculenti insulti misogini.

Tanto, che diverse deputate e deputati della sinistra hanno definito l’espulsione di Rousseff «un femminicidio simbolico». Secondo statistiche ufficiali, la società brasiliana è in maggioranza composta da donne e da persone che si definiscono «negre o mulatte».

Ma non è alla maggioranza della popolazione, non è agli strati meno favoriti che deve rispondere il «governo de facto» di Temer. Alle classi popolari, alle loro richieste che hanno anche interrogato i limiti dei governi del Pt, Temer risponde nominando al ministero della Giustizia e della sicurezza cittadina Alexandre de Moraes: un personaggio che, nello stato di San Paolo ha deciso che gli studenti che occupano le scuole per protesta devono essere «trattati come terroristi».

All’Agricoltura, va uno dei 60 uomini più ricchi e potenti del Brasile, Blairo Maggi, ex governatore dello Stato del Mato Grosso dal 2003 al 2006. Un imprenditore, considerato il principale produttore di soia al mondo, responsabile di aver contribuito alla distruzione dell’Amazzonia nell’espandere i propri interessi all’interno dei boschi e delle aree protette.

E fiero di esserlo. Al ministero della Salute, un altro imprenditore, Ricardo Barros, che da deputato aveva già annunciato l’intenzione di ridurre il finanziamento al programma sociale Bolsa Familia, e che è inquisito per frode e illecito finanziario.

Agli Esteri va il senatore José Serra, uomo di Washington e delle multinazionali, ex candidato contro Rousseff nel 2010, che ha già presentato il progetto di privatizzazione della petrolifera di Stato Petrobras.

Alle Finanze è nominato Henrique Meirelles, proprietario del Banco Original, già presidente del Banco di Boston e della Banca Centrale. A dirigere la Banca centrale viene messo Ilan Goldfain, alto dirigente della seconda banca più grande del paese, Brasil Itau, che ha finanziato la campagna elettorale di Neves.

Tuttavia, con sfacciata retorica, Temer ha detto che «il potere ce l’ha il popolo»: dimenticando che, per il suo potere personale, 55 voti del Senato hanno annullato la volontà di quasi 55 milioni di cittadini che hanno votato per Rousseff e che ieri le hanno rinnovato la fiducia manifestando contro «il Giuda Temer».

In nome della «ripresa economica» voluta dai «mercati», il presidente «de facto» ha annunciato una riforma fiscale che riduce la spesa pubblica, e una riforma delle pensioni.
E il primo a congratularsi con lui, in America latina, è stato il suo omologo argentino Mauricio Macri.