«Ho sognato che Dio mi chiedeva di scrivere una recensione favorevole per la sua creazione» confessò Charles Simic (Il mostro ama il suo labirinto). E Anne Dillard lo ha fatto per tutta la vita. Nata nel 1945 a Pittsbourg, Pennsylvania – nelle foto una nordica purosangue, energico profilo, occhi azzurri, capelli biondi –, ha scritto una appassionata recensione dell’operato divino, quanto più incomprensibile nelle sue verità ultime quanto per lei più sublime e ammirevole.
Definita «a naturalistic classic», Dillard – una isolata raramente menzionata tra gli scrittori americani contemporanei – ha inventato un saggismo speciale che solo lei maneggia con precisione, ironia e affetto. La natura descritta in tutte le sue manifestazioni, vegetali, animali, terrestri, aeree, glaciali, sperimentate sul corpo, amate, sofferte, indagate, è investita da una scrittura fedele e una semplicità elegante, libera, spericolata. L’ oggetto può essere innumerevole e multiforme, forse un punto, ma è visibile, tattile, emozionante, penetrato dalla sua frase.
«Ci sono un sacco di cose da vedere, regali scartati e sorprese gratuite. Una volta ero in grado di vedere gli insetti in volo nell’aria … Ora riesco a vedere gli uccelli. Vorrei poter conoscere erbe e siepi – e averne cura. Allora il mio minimo viaggio nel mondo diventerebbe un’escursione sul campo, una serie di felici riconoscimenti» (Ogni giorno è un dio, Bompiani 2016, traduzione di Andrea Asioli). I maestri dichiarati sono Emerson e Thoreau, ma tanti altri sono chiusi nella sacca della brava americana che in ogni occasione si è misurata con la fatica fisica, il pericolo dell’impresa, l’azzardo di esserci. Va a scrivere in un casotto sulla sponda di un lago, o in mezzo a un bosco, spacca la legna all’aperto nel freddo, beve solo caffè, impaziente aspetta la frase giusta. «Poniamo che tu abbia visto un pezzetto ordinario di ciò che è reale, l’infinita stoffa del tempo che l’eternità trapassa da parte a parte, e il popolo del tempo dalla pelle morbida che lavora e muore sotto le stelle in lento movimento. Be’ e allora?».
Il suo saggio più famoso, indimenticabile quanto quello di Plinio il giovane sull’eruzione del Vesuvio, è «Eclissi totale», su una catastrofe sublime – per fortuna qui solo paventata –, una eclissi lunare a cui aveva assistito il 26 febbraio 1979 da una collina sopra la valle di Yakima. Un secondo prima che il sole scomparisse un muro di nera ombra coprì la folla in attesa del fenomeno celeste. «Ruggì come un tuono». La luna aveva coperto il sole, lasciando solo un sottile tondo orlo di luce simile a un anello d’oro. «Vedevamo il muro d’ombra avvicinarsi, e al momento dell’urto gridammo».
Nel 1975, in occasione dell’uscita di Pellegrinaggio al Tinker Creek (Bompiani 2019), Dillard ha ricevuto il Pulitzer per la saggistica, e nel 2014 Obama le ha conferito la National Medal of Arts. L’ultima novità, Una vita a scrivere (Bompiani «Passaggi», traduzione di Guia Cortassa, pp. 156, € 14,00), consiste in un manipolo serrato di saggi sulla scrittura che inizia con una frase pugnace, genuinamente dillardiana: «Quando scrivi, disponi le parole su una riga. La riga di parole è il piccone del minatore, il cesello dell’ebanista, il sondino del chirurgo…». In virtù delle loro abilità manuali quei pionieri che attraversarono torrenti, disboscarono foreste, cacciarono i nativi, ora sono lì a vigilare sulla conquista di un territorio nuovo, quello letterario. Dillard tratta il lettore meglio di un common reader – anche se la lezione della Woolf non è dimenticata. Per lei il lettore è un amico, un collaboratore impegnato a compiere lo stesso percorso dello scrittore; non un accademico, ma un ardito sperimentatore, uno scrittore anche lui che non aveva previsto quanto drammatico sarebbe stato quel percorso. Dillard non lo risparmia, gli confida il dramma che deve essere anche il suo, lo insulta anche, non deve fare il coniglio, lo stordisce di allegorie. «La scrittura è mutata , e in un baleno, tra le tue mani da espressione delle tue idee a strumento epistemologico». Se lo trascina dietro, il suo lettore/scrittore ormai sedotto, per sette capitoli, evitando d’ora in avanti di usare termini specialistici, anche se in un saggio del 1982 («Contemporary Prose Styles») dimostra quanto fondata sia la sua esperienza critica, e accorta nell’uso di un prosa che sia affinato strumento cognitivo, pura energia, scarna eleganza. Il suo complice lo incatena con catene d’amore. «La riga di parole tocca il tuo cuore». Frammenti di immagini, una canzone dimenticata, l’angolo di un boschetto, di una camera da letto: «La riga di parole li scortica, li disseziona … La riga di parole va alla ricerca di crepe nel firmamento … La riga di parole schizza oltre Giove e la sua orbita pesante e vertiginosa, senza guardare né a destra né a sinistra». Vorrebbe descrivere la visione, ma la lotta contro i materiali è vana, il lavoro non è la visione stessa. La pagina vuota ti insegnerà a scrivere. «Una delle poche cose che so della scrittura è questa: usala tutta, sparala, giocala, perdila, subito, sempre».
Vi è stato un incontro eccezionale nella sua vita, di cui scrive in un lungo saggio, «Per il momento», raccolto in Ogni giorno è un dio. Fu con il «paleontologo francese» – così ce lo presenta –, il gesuita teologo Teilhard de Chardin, di cui scrisse vita, opere, pensieri, affetti dal 1923, quando cavalcava nell’Ordos, il deserto della Mongolia Interna, dove trovò tracce di un uomo preneanderthaliano, fino alla morte. Era stato eroico, sprezzante del rischio e della fatica in guerra e nell’ardito impegno scientifico, paziente con la Chiesa cattolica che puntualmente bocciava la pubblicazione dei suoi diciotto libri. Cita i ricordi di chi lo conobbe: «uno snello sacerdote patrizio … Irradiava severità, allegria, curiosità da ogni poro. E sempre con un delicato riguardo verso gli altri e senza mai preoccuparsi per sé». Autorizzata da lui, Dillard si lancia in affermazioni assolute, estatiche, quasi hopkinsiane. «Cristo è selce; la selce è Cristo. Il mondo è incandescente. Le cose sono innumerevoli prolungamenti dell’essere divino».
Il capitolo sette di Una vita a scrivere, l’ultimo, è dedicato a Dave Rahm, il pilota acrobatico che faceva «tutto ciò che era possibile col suo aereo: avvitamenti, tonneau, frullini, otto cubani, chandelle e stalli. (…) Rahm usava il velivolo inesauribilmente, come un pennello che dipingesse nell’aria». La riga si fa tesa, elastica, traslucida, vibrante inseguendo quella scrittura aerea alla Saul Steinberg. Come sempre, Dillard vuole sentire col corpo l’effetto spietato di due tonneau, uno dopo l’altro; non le basta connotare l’esperienza sublime dal di fuori. Per diventare frase prima deve esserci torsione di cuore, intestino, bulbi oculari. Terrificante era stato anche scivolare raschiando il fianco di una montagna, vederla vicinissima riempire i finestrini. Il realismo è vinto dall’acceso volo di metafore che il piccolo aereo inscrive nell’aria imprevedibilmente. «Era vestito del suo velivolo, Rahm. Privo di tratti come un prete. Era perso nel suo aspetto figurale come un attore o un re». La bravura di Dillard ci intrattiene, incantati spettatori, in terra ferma.