Si inizia con l’eclissi di luna del febbraio del 1979. Tra le altre località particolarmente esposte, la Valle di Yakima, nello Stato di Washington, è un punto privilegiato. Nella folla di curiosi messisi in viaggio per assistervi c’è la scrittrice Annie Dillard. È l’alba quando scala una collina fino alla cima e allora l’evento, lei riporta, «cominciò senza strepito», finché il corpo nero del sole divenne simile a un «fungo atomico». È l’ultimo momento di lucidità che Dillard ricordi, poi un precipitare nell’abisso: «Stavamo tutti scendendo per lo scivolo del tempo» nella notte buia, prima che il mondo scomparisse, come fosse improvvisamente finito. «Ciò che vedevo, ciò in cui in apparenza mi trovavo, era la miserabile luce che i ricordi dei morti potevano spandere sul mondo vivente. Eravamo tutti morti nei nostri stivali sulle vette di Yakima, ed eravamo soli nell’eternità». Per chi la visse a Yakima, quella fu un’esperienza escatologica devastante, la fonte di un sapere al di là del concesso.
«Eclissi totale» è il primo saggio di Ogni giorno è un Dio (traduzione di Andrea Asioli, Bompiani «Overlook», pp. 257, € 18,00), l’ultima raccolta di Annie Dillard, ai suoi primi passi in Italia, se si eccettua Il lungo fiume della vita (1992), un’epopea ottocentesca, pubblicata da Frassinelli nel ’94. Nonostante un Pulitzer nel ’75, Dillard sembra essere stata poco seguita negli Stati Uniti, dove però ora torna a galla, probabilmente grazie al recente interesse per l’eco-letteratura, una corrente della critica nella quale lei certamente non includerebbe le sue opere, che hanno invece come oggetto, sì, l’osservazione minuta dei fenomeni della natura ma intrecciata con il pensiero della teodicea, ovvero della sussistenza del male nel mondo, non giustificata dall’operato di Dio. Quindi, qualcosa di molto diverso dal mero studio di un contesto naturale in un’opera letteraria. Dillard entra piuttosto nel campo della disquisizione religiosa. Che sia dotata di una sensibilità acuta, una cultura scientifica e teologica, e una scrittura di eccezionale liricità e precisione è certo, e i ventidue pezzi, vecchi e nuovi, su cronache di vario tenore, raccolti in Ogni giorno è un Dio, lo dimostrano.
Nata fra le acciaierie di Pittsburgh nel 1945, Dillard si fa presto fuggitiva e vagabonda, una «visitatrice in cerca di segni», una «cacciatrice all’agguato» nel folto di territori incontaminati dove riesce ad affinare nuovi modi di vedere e di interpretare i segreti del loro linguaggio. È autrice di una quindicina di opere, tra cui pochi romanzi e molta di quella che ha chiamato novelized nonfiction. Tale è anche il diario spirituale con cui esordisce nel 1974, quel Pilgrim at Tinker Creek che le diede il Pulitzer, e che lei ambienta nell’area di Roanoke, sulla catena del Blue Ridge, in Virginia, dove ha studiato, laureandosi con una tesi su H. D. Thoreau. Un inizio significante, perché la sua scrittura va a incardinarsi in una tradizione americana di osservazione del mondo naturale secondo le linee del Trascendentalismo di Emerson, il quale trovava la via per un possibile incontro con il divino nell’immersione nella natura. Per Dillard questo incontro, elargitore di stupore e meraviglia, non è tuttavia sempre gratificante, perché esso conduce anche a una consapevolezza delle contraddittorietà del mondo datoci per creazione (o evoluzione?), e a una forma di un misticismo travolgente che le lacera la psiche. Dillard ha smesso di credere nel Dio cristiano per riconoscere una molteplicità di Onnipotenze.

Impronte insanguinate
Ci sono due costanti in questi saggi: il «risveglio» dell’anima alla coscienza, un’eco moderna dell’Awakening spirituale di un puritanesimo più tardo e illuminato; e, di contro, la constatazione che «la crudeltà è mistero come lo spreco del dolore». Svegliarsi, come titolano alcuni saggi, è quello che ella fa quando si abbandona alla contemplazione della vita e della morte nelle acque del ruscello Tinker. Ma c’è un altro risveglio di cui lei parla, ed è il risveglio «in un dio»: «Alcune mattine mi svegliavo alla luce del giorno per ritrovarmi il corpo ricoperto di impronte di zampe insanguinate; sembrava che fossi stata dipinta di rose … Quale sangue era questo, e quali rose? Forse erano la rosa dell’unione, il sangue dell’assassino, o la rosa della nuda bellezza e il sangue di qualche indicibile sacrificio o nascita. Il segno sul mio corpo forse era un emblema o una macchia, le chiavi del regno o il marchio di Caino». In realtà nulla di così sovrastante o di quella sacralità estatica che di solito si attribuisce alla mistica femminile: solo il saluto di una gatta un po’ troppo affettuosa. Eppure, l’incidente si offre a un aprirsi «al mistero, a voci di morte, alla bellezza, alla violenza», in una generale sensazione «di qualcosa di potente all’opera» sulla nostra materialità.
Il risveglio comanda anche un imparare a vedere. La natura «è una specie di ora-la-vedi, ora-non-la-vedi-più». Un pesce guizza: è il miracolo di un istante, prima che torni a dissolversi nell’acqua come sale. Cervi ascendono elegantemente al cielo con un solo balzo fulmineo; il rigolo più brillante svanisce nel fogliame. «Queste sparizioni – dice Dillard – mi lasciano stupefatta e immersa in una concentrata fissità». Assistere all’incanto di trecento merli rossi che spiccano il volo dalle fronde di un albero in cui si erano mimetizzati è scoperta di «grazia» e «bellezza»; l’apparente caduta a piombo di un tordo beffeggiatore che riprende quota ad appena un soffio dal suolo consola e finisce col compensare la tragedia di altre realtà.

Una subdola donnola
E qui il mondo si rovescia. Una rana perde d’improvviso il suo ritmo per sgonfiarsi a poco a poco come un «palloncino forato» e galleggiare e poi affondare nella corrente, dove si intravede l’ombra velenosa di un’enorme cimice d’acqua che abbandona la sola pelle della sua vittima a un altro destino; una subdola donnola si configge nella sua preda con la profondità di un serpente a sonagli; una falena si consuma nella fiamma di una candela; nel garbuglio della sua tela un ragno nasconde sedici cadaveri, e così via. È una storia vecchia come il mondo: un pesce mangia l’altro.
La donnola infatti agisce per «necessità» non con «libero arbitrio». Eppure, Dillard si chiede che razza di mondo sia questo in cui, prima ancora della grazia e della bellezza, è la crudeltà a imporsi? E chi è il Maestro di tanta dissonanza? Pascal usava un bel termine per descrivere la nozione di un Dio che dopo aver generato l’universo gli volta le spalle: «Deus absconditus». Dillard invece è più scettica, e soffre con la sofferenza dei perdenti, riflettendo su ciò che Böhme chiamava «l’origine del male». Questo non toglie che si stupisca ancora nel contemplare il mistero delle venature di una foglia, senza smettere tuttavia di interrogarsi sulle ragioni del mistero ontologico, che invece si beffa dell’intellegibilità del raziocinio umano.