Nulla di ufficiale. Solo bisbigli consegnati a chi di dovere, ma il messaggio che parte da Bruxelles è lo stesso chiarissimo. Ai guardiani del rigore l’idea renziana di eliminare la tassa sulla prima casa non piace nemmeno un po’. Non va nella direzione da noi indicata, segnalano le anonime «fonti europee». Si potrebbe forse aggiungere che la trovata ricorda troppo da vicino quelle berlusconiane che l’Europa detestava.
Va da sé che, prima di emettere giudizi ufficiali il tribunale europeo del rigore aspetta «dettagli». Non c’è però bisogno di nessun dettaglio per ricordare che «il Consiglio ha raccomandato che l’Italia sposti sugli immobili e in consumi il carico fiscale che grava su lavoro e capitali». Completa il poco confortante quadro una minaccia precisa. L’Italia ha già beneficiato della flessibilità con la finanziaria dello scorso anno, e in cambio qualche progresso nel cammino delle riforme ordinate, pardon indicate, dalla Ue c’è effettivamente stato. Ora però: «È essenziale che non si perda lo slancio. E naturalmente ci aspettiamo che l’Italia rispetti tutte le indicazioni del Consiglio. Comprese quelle sulla politica tributaria». Più esplicito di così…

Forse parlare di macigno sulla traiettoria impostata da palazzo Chigi sarebbe esagerato. Ma di certo trattasi di un grattacapo serio. La legge di stabilità dovrò essere pronta e consegnata agli esaminatori di Bruxelles il 15 di ottobre, ma per l’aggiornamento del Def, prerequisito essenziale, i tempi sono più stretti. Va presentato per il 20 di settembre, e i soldi da trovare sono tanti. Forse 25 miliardi, più probabilmente 30: ne mancano all’appello almeno 15. Ieri Renzi, più che mai deciso a risollevare le sorti della sua declinante popolarità eliminando la tassa più odiata dagli italiani, ha incontrato a palazzo Chigi l’assai più dubbioso titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Argomento unico del summit, dove trovare quella quindicina e forse più di miliardi.
I dati Istat di ieri confortano, la congiuntura è tutto sommato favorevole. Ma la quadratura del cerchio rimane ardua. L’idea di Renzi, il prestigiatore, è semplice: aggiungere ai tagli che dovrebbero fruttare una decina di miliardi, quelli che vanno sotto la dizione spending review a carico di ministeri, sanità, Pa, partecipate ecc, una serie di decurtazioni su fondi promessi ma non stanziati, come ad esempio prorogare il bonus fiscale per le assunzioni a tempo indeterminato ma portando da tre a due anni e poi, nel 2017, a un solo anno. Ma per giocare con i conti in questo modo è indispensabile che la Ue accetti di chiudere tutti e due gli occhi. Senza ulteriori concessioni in termini di flessibilità, quei miliardi non verranno trovati.

Lo ammette fra le righe, ma neppure troppo, il presidente della commissione bilancio della camera Francesco Boccia: «Credo che la manovra sarà di 30 miliardi. Il contesto europeo consentirà al nostro governo di ottenere margini aggiuntivi». Ottimismo d’ordinanza. La partita sarebbe comunque difficile, data la proverbiale scarsa propensione europea ad allargare i margini di flessibilità. Lo scontro sul taglio della Tasi rischia di renderla impossibile. Si capisce dunque facilmente perché Padoan sia così gelido quando si arriva al capitolo dolente della tassa sulla casa.
Solo che quel passo Renzi non può più evitarlo. In un certo senso, l’uomo è prigioniero della sua stessa strategia comunicativa, tutta centrata sulla moltiplicazione degli annunci, dunque sull’aggiungere sempre nuova carne al fuoco, perché perdere la rincorsa vorrebbe dire permettere al popolo votante di emettere un giudizio sui risultati ottenuti, o più precisamente non ottenuti, invece che sulla sommatoria di impegni mirabolanti. Il calo di popolarità, poi, gli impone di correre ai ripari con una mossa già più volte sperimentata, e sempre con successo, dal predecessore di Arcore. Però giocare con i conti e con l’Europa è sempre un doppio azzardo. Più che sul campo delle riforme istituzionali, sul quale tutti gli occhi saranno puntati a tempo pieno, la sfida d’autunno è sul fronte, meno vistoso ma più accidentato della legge di stabilità. Posta in gioco, il suo stesso futuro politico.