Premiato dal pubblico lo scorso anno al Sundance, e poi al Panorama della Berlinale, arriva nelle nostre sale Difret-Il coraggio per cambiare che nel frattempo è stato accolto sotto la protezione di Angelina Jolie entrata come coproduttrice. Zeresaney Mehari, etiope ora trapiantato in America si è ispirato all’esperienza «vera» dell’avvocatessa Meaza Ashenafi che da anni con la sua associazione combatte in Etiopia per i diritti dell donne contro le violenze.

 

 

Tra le sue molte battaglie c’è anche quella per Hirut Assefa, una ragazzina che vive in un villaggio lontano dalla capitale, dove domina la tradizione. Quando il padre di un ragazzo del villaggio vicino la chiede in moglie, lei che invece vuole studiare e non finire come la sorella maggiore prega il padre di rifiutare. L’uomo l’accontenta ma il codice della tradizione, la Telefa, tutto maschile, dà al «pretendente» il potere di rapire la ragazza, di stuprarla per poi sposarla. Hirut però fugge e mentre corre via uccide uno dei complici del suo violentatore. Per la legge del villaggio è condannata a morte, ma a difenderla arriva Meaza, in un caso – la vicenda è accaduta nel ’96 – che diviene emblematico per tutto il Paese al punto da costringere a avviare una politica più seria sulla questione, di cambiare la legge (oggi lo stupro è punito con 15 anni) fino a rimuovere l’allora ministro della giustizia.

 

 

La cifra narrativa è semplice, a tratti persino didascalica, come gli occhi scuri di Hirut spalancati sull’avvocatessa che vive sola, non è sposata e non cucina, e i suoi sobbalzi davanti allo schermo della tv. Ma quello che funziona è soprattutto il punto di vista con cui Mehari denuncia questa pratica di violenza: non è una questione di «civiltà» ma prima di tutto è una questione politica, che coinvolge istituzioni, governo, poliziotti tutti complici e compiacenti verso quella «tradizione» che di fatto non dovrebbe essere riconosciuta.

 

 

Il regista non giudica mai col suo sguardo, né cerca eroismi compiacenti: il suo è appunto il racconto di una lotta che va a toccare zone sensibili, e che come ogni scossa profonda contiene in sé conflitto e fatica, il resto è solo retorica – Hirut da allora non è più tornata a casa, non si sa dove sia, e non ha mai risposto ai tentativi fatti da Mehari per contattarla.
La battaglia di Ashenafi è dunque una battaglia dalla parte delle donne ma che riguarda tutti: la città e le zone rurali, nel cui divario si consumano molte e aspre contraddizioni, e più in generale un sistema intero i cui effetti permettono di conservare, come in tutto il mondo, i rapporti di potere e di classe – far studiare i poveri per carità – che nei paesi colonizzati e postcoloniali come è l’Etiopia servono e sono sempre serviti a mantenere fermo il cambiamento.

 

In questo senso anche il film è una sfida – del resto il titolo vuol dire “osare” perché il regista ha girato in Etiopia e in aramaico rifiutando le proposte di tradurre in inglese la sceneggiatura, con attrici etiopi, molto brave, Meron Getnet (Ashenafi) che in Etiopia è una star di cinema e tv, e l’esordiente Tizita Hagene(Hirut), in trentacinque millimetri e con una troupe ad alta percentuale etiope.