Nelle prime settimane, il tono dei media sul coronavirus è stato determinato soprattutto da interessi di bottega o economici, inclini all’allarmismo o alla rassicurazione a seconda del punto di vista. Fortunatamente, da alcuni giorni inizia a emergere la reale dimensione dell’emergenza coronavirus, che non va cercata nella percentuale dei possibili decessi sui casi confermati ma nella capacità di tenuta del sistema sanitario.

Secondo gli ultimi dati disponibili riportati nell’Annuario statistico della sanità del 2019 (con i numeri del 2017), in Italia sono disponibili 5090 posti letto nei reparti di terapia intensiva, tra ospedali pubblici e strutture accreditate. A questi bisogna aggiungerne altri 1200 circa, distribuiti negli ospedali pediatrici. In tutto, circa 11 posti letto ogni centomila abitanti, un dato in linea con la media europea. La popolazione italiana però è più anziana: da noi gli ultrasessantenni, la fascia che soffre maggiormente i danni del virus, rappresenta il 22% della popolazione, mentre il dato medio europeo è del 19%.

Ovviamente i reparti di terapia intensiva non devono ospitare solo i pazienti del coronavirus, dunque bisogna tenere conto che quasi la metà di questi posti letto sono già utilizzati: il tasso di utilizzo è del 48% tra gli adulti e del 41% tra i bambini. Quindi, su tutto il territorio italiano ci sono circa 2900 letti disponibili per ricevere quel 5% di casi di COVID-19 che hanno bisogno di cure salva-vita.

È possibile aumentare questa capacità adibendo alla terapia intensiva altri reparti ospedalieri? In teoria sì, ma non si tratta solo di cambiare le etichette sulle porte: oltre alle stanze da isolare per evitare il contagio, bisogna pensare alle attrezzature necessarie. Dato che la patologia più tipica dei casi di COVID-19 è la polmonite virale, in assenza di farmaci la terapia di supporto consiste nell’ossigenazione assistita dei pazienti. Di “ventilatori polmonari”, sempre secondo l’Annuario, in Italia ce ne sono circa 14000.

Basteranno? Questo non lo sa nessuno. Il trend però al momento non suggerisce ottimismo. I ricoverati in condizioni serie crescono a un ritmo esponenziale da dieci giorni raddoppiando circa ogni tre giorni. Come ha detto ieri l’infettivologo dell’Istituto Superiore di Sanità Giovanni Rezza, era un dato atteso perché servono circa 14 giorni affinché l’isolamento abbassi la curva epidemica. Ma se le strategie di contenimento del governo non si rivelassero efficaci e la crescita attuale continuasse, il tetto dei posti letto e delle attrezzature disponibili potrebbe essere raggiunto già intorno al 15 marzo, secondo le proiezioni. A quel punto, con i reparti di rianimazione al completo le conseguenze ricadrebbero su tutta la società, perché finirebbero i posti letto necessari anche a chi è vittima di altre patologie o di un incidente.

C’è un ulteriore problema: le cifre riportate valgono per l’intero territorio nazionale e non tengono conto del fatto che l’epidemia non colpisce in modo uniforme su tutto il territorio. Nel circondario del lodigiano, infatti, gli ospedali sono già in crisi. Le risorse umane e materiali, o gli stessi malati, dovranno dunque essere trasferite con rapidità secondo il bisogno, oppure la capacità di tenuta potrebbe essere drammaticamente più bassa. Che la sanità regionalizzata abbia questa capacità di coordinamento è tutto da dimostrare.