«La responsabilità più grande che abbiamo noi ecologisti sta nel mettere in campo una narrazione orientata verso il nuovo paradigma, un’interpretazione della realtà che si opponga a quella autoritaria e integralista che ora va per la maggiore in molti governi, a partire da quello di Trump. E spiegare che l’uomo è parte della natura, che la nostra sopravvivenza dipende dagli equilibri dell’ecosistema. È la sfida più importante per le nostre generazioni e tutti i linguaggi, tutte le forme di comunicazione devono concorrere per vincerla». Cyril Dion, quarant’anni, francese di origine ma cosmopolita per mentalità, è tra le figure più interessanti del movimento ambientalista europeo.

Ha fondato nel 2007, insieme all’agricoltore franco-algerino Pierre Rahbi, il «Movimento del Colibrì» che guarda verso la sovranità alimentare, la condivisione delle risorse e la sostenibilità nei processi di produzione del cibo. Ma nel suo curriculum ci sono anche raccolte poetiche (Assis sur le fil, del 2004), un romanzo (Imago, del 2017, che prende spunto dal conflitto israelo-palestinese), un documentario dal titolo profetico, Demain, sulle buone pratiche globali per la sostenibilità che ha concepito insieme all’attrice Mélanie Laurent e che ha superato nel 2015 il milione di spettatori nelle sale d’oltralpe.
Oltre a svariati saggi, come il recente Petit manuel de résistance contemporaine (Actes Sud, 2018) che è venuto a presentare presso la Libreria Stendhal di Roma nell’ambito di «Cultivons notre jardin»: un ciclo d’incontri organizzato dall’Ambasciata di Francia proprio per animare la riflessione sugli obiettivi dell’Accordo di Parigi contro il cambiamento climatico che ha appena compiuto tre anni.

Il titolo del suo ultimo libro fa pensare che ci troviamo nel mezzo di una guerra. Contro chi o cosa bisogna resistere?

Siamo difronte a uno scenario molto critico, da quando gli ambientalisti hanno cominciato a sollevare il problema dello stato di salute del Pianeta, negli anni ‘70, la situazione è assai peggiorata e oggi sta diventando una questione di sopravvivenza. Non c’è mai stata una riduzione così massiccia delle specie dall’estinzione dei dinosauri, il 70% dei vertebrati è scomparso nell’ultimo secolo, negli ultimi trent’anni è sparito l’80% degli insetti. Secondo gli scienziati nel 2050 la quantità della plastica negli oceani supererà quella dei pesci. Per non parlare degli sconvolgimenti climatici: con ogni probabilità nel 2040 saremo due gradi al di sopra dei livelli preindustriali, mentre l’Accordo di Parigi prevede che l’aumento si debba contenere entro un grado e mezzo durante il secolo. A quel punto il permafrost in Siberia potrà fondersi liberando il metano conservato nel sottosuolo e se questo dovesse accadere non sapremo in quale tipo di mondo potremo abitare. Tutto questo è sufficiente per capire che le conseguenze cui stiamo andando incontro sono più gravi di una guerra mondiale, dobbiamo agire subito per uscire dal circolo vizioso di un modello energivoro e climalterante, non possiamo aspettare la generazione dei nostri figli.

Nel frattempo però i vertici sul clima, compreso l’ultimo di Katowice, procedono fra mille mediazioni, in ossequio alle lobby del greggio, nella quiescenza pressoché generale. Perché secondo lei?

È una questione che affronto con molta attenzione nel mio libro. Che cosa fa in modo che le persone restino indifferenti al cospetto di queste catastrofi quotidiane? Forse il fatto che siano percepite come un fenomeno talmente enorme da far pensare che sia impossibile invertire la rotta. Su Le Monde è uscita un’intervista al filosofo australiano Clive Hamilton che spiegava come per certi aspetti siamo tutti «climatoscettici» proprio perché il contraccolpo emotivo che suscita il cambiamento climatico è insopportabile, tanto da portare a rimuoverlo o a ignorarlo del tutto. Credo ci sia anche un’altra ragione, su cui riflette l’ambientalista inglese George Marshall, autore del volume Don’t even think about it: why our brains are wired to ignore climate change (Bloomsbury, 2014, ndr): il cambiamento climatico si racconta in termini troppo astratti, senza ricollegarlo alla nostra quotidianità, dunque le persone non sono portate a impegnarsi per arginarlo. Quando poi se ne prende atto attraverso un fenomeno estremo, come l’uragano Katrina che ha devastato New Orleans nel 2005, si fa presto a curare il trauma pensando che è stata una circostanza isolata, che non si ripeterà. Esiste una componente psicanalitica, insomma, che c’impedisce di compensare la parte emotiva con quella razionale, in grado di fornire alternative e di rispondere concretamente agli stimoli negativi che riceviamo.

Eppure in piazza le persone scendono, eccome, se aumentano i prezzi dei carburanti fossili, come dimostra la rivolta dei gilets jaunes che hanno messo alle corde Macron e il suo piano per la riconversione energetica. Che cosa insegna questo fenomeno?

Insegna che c’è una forte sperequazione sociale che non si può ignorare e che può diventare una leva del cambiamento. Durante la Rivoluzione francese d’altro canto la popolazione non si è sollevata per rivendicare i diritti dell’uomo ma perché c’era la carestia, il prezzo del pane era troppo alto e le persone percepivano una distanza abissale fra gli aristocratici e il resto della popolazione. Ma quella ribellione ha permesso di portare al potere delle idee che erano mature e che hanno cambiato il racconto che la società faceva di se stessa. Ora ci troviamo in una situazione simile, i populisti hanno già dato la loro risposta arroccandosi sul vecchio modello, sta a noi ecologisti indirizzare queste energie e dargli uno sbocco in una nuova visione. Alla narrazione della catastrofe, insomma, bisogna affiancare, o forse sovrapporre, quella di una riconversione socialmente desiderabile, come sosteneva Alex Langer… E’ quella funzione «fabulatrice», teorizzata dalla scrittrice canadese Nancy Huston, fra i suoi principali riferimenti, che permette alla nostra specie di «plasmare» le strutture sociali attraverso i racconti…
Quando ho girato il mio film volevo proprio che le persone uscissero dalla sala pensando «vorrei vivere in un mondo così». Oggi i giovani sono costretti a lavorare nella precarietà e in settori che non li interessano senza riuscire a pagarsi un affitto, a comprarsi una macchina, ad accedere insomma al benessere che promette questo modello. La favola capitalista si sta distruggendo da sola, dobbiamo uscire dal rullo compressore del consumismo e raccontare da ambientalisti un futuro nel quale sia affascinante vivere.