E se per creare un giardino si ricorresse al metodo di piantare semi e aspettare di vederli crescere, usando magari soltanto cento bustine, pescandoli da una pila di cataloghi di vivai specializzati da sfogliare e scegliendoli dalla propria personale antologia di infatuazioni e simpatie, per non dire affinità?

PIANTE DELL’INFANZIA, ombrellifere giganti, annuali dai nomi e colori evocativi di predilezioni variamente incontrate. Insomma, quel che ci serve (come quando si scelgono i semi per far l’orto) per soddisfare il nostro gusto e piacere. Sottraendosi al criterio dominante che vuole il giardino, almeno in buona parte, disegnato e progettato. È quel che James Fenton, poeta, critico d’arte e appassionato di giardinaggio, di cui scrive per la New York Review of Books, ci propone ora con humor anglosassone e gusto affilato per il paradosso nel suo Il giardino dei cento semi, riprendendo articoli originariamente apparsi sul Guardian (Elliot, traduzione di Franca Pece, pp. 96, euro 13,50).

Il consiglio è provare. Piantare, sperimentando per un paio di stagioni, senza alcuna ossessione per l’ordine, assecondando le variazioni e preferendo soprattutto piante annuali. In un’elencazione arguta, con preferenza per queste ultime e l’esclusione delle rose, il catalogo si snoda così con tono giocoso e andamento che tende all’enciclopedico, bilanciando, come dice, ovvio (ma irresistibile) e più ricercato, provocatoriamente incrociando, spesso sopra le righe, molti luoghi comuni del giardinaggio.

DAL PROGETTARE non progettando al paradosso di coloro cui piacciono i fiori ma non le piante, dal peso delle mode che traspongono in giardino le tendenze floreali che si affermano nel gusto dei fiori recisi o di quelle che estendono alla scelta delle piante la tirannia del design che promana dalla decorazione d’interni al pregiudizio per le piante a ciclo breve, quelle annuali e biennali che nel loro spontaneo ricominciare, dovrebbero invece nell’estetica di Fenton diventare caratteristica perenne del giardino. Piante collaborative che rifioriranno e abbondantemente.

Magari dove vogliono, moltiplicandosi e spargendosi all’intorno per autodispersione. Che si autopropagano per seme sulla superficie del vialetto, spingendosi tra la ghiaia, in qualche crepa o alla base di un muro. Fiori che colonizzano lastricati, altri che seguono a ruota, non invitati. Per poi magari diradarsi e un po’ alla volta scomparire, sostituiti dall’espandersi di altri. Erbe utili, decorative come il profumato finocchio selvatico, magari nella varietà bronzo, bordure di prezzemolo riccio, l’informale tono della borragine che si autosemina.

Fiori colorati in tavolozza, dall’azzurro del fiordaliso all’arancio del papavero della California, alle infinite varietà delle cascate di nasturzi. E ancora, temi come l’ispirazione che si può trarre dai campi fioriti, l’irruenza dei rampicanti, l’opportunità di mimare le policromie di un aspetto tropicale. In una serie di infatuazioni che mettono in moto il giardino. Che sia pur soltanto quello di una pianta di convolvolo arrampicata su una scala antincendio.