Per risalire le ragioni degli ideatori della mostra Jardins, a Parigi alle Gallerie nazioonali del Grand Palais fino al 24 luglio, e del perché scelgano di praticare l’ibridazione tra giardino e museo, occorre tenere bene a mente alcune premesse (sviluppate in vari saggi del catalogo a cura della Réunion des musées nationaux). Ininterrottamente in divenire, eppure effimeri, restii a lasciare traccia di sé, come pure irriducibili a un’autorialità singolare, esito come spesso sono di mani diverse e di una firma congiunta con la natura, i giardini stentano a farsi strada nel sistema delle arti, dei saperi e del loro costituirsi e depositarsi in tassonomie disciplinari, corpora, paradigmi e strumenti analitici. Non appartenendo al mondo degli oggetti finiti, inscritti nel flusso del tempo e nel corpo con cui li abitiamo, vivono assieme il doppio regime di opera d’arte intrasportabile e luogo dell’opera, dove convergono e sono integrate funzioni diverse, lo statuto del reale del sito e quello della sua rappresentazione.

La sfida è allora quella di un’esposizione impossibile, sulla rappresentazione del giardino come forma d’arte … totale. E ciò a fronte del paradosso di un’attenzione ancora scarsa al tema dell’arte dei giardini, pur nel fiorire negli ultimi decenni di manifestazioni a essi intitolate, assumendoli a pretesto, perlopiù, di retrospettive o messe a fuoco di momenti chiave della storia della pittura.

Sotto l’indistinzione secca, onnivora, del titolo in surplace, Jardins, i tre curatori, Laurent Le Bon, Marc Jeanson e Coline Zellal, hanno piuttosto qui chiamato a raccolta un’adunata pluridisciplinare di testimonianze di quei creatori dell’artificio senza il quale nessun giardino è dato: ideatori, progettisti, autori e «ritrattisti», interpreti, registi. Testimonianze, a voler dare una sintesi dell’intenzione dell’iniziativa, poste sotto l’egida del termine «giardinista» – crasi eloquente di giardiniere e artista, attribuita a Horace Walpole.

Una volta lasciati all’esterno i giardini – evocati sulla soglia del Grand Palais dal muro di piante di Patrick Blanc, Éclair Vert –, circa 450 pezzi dialogano tra loro in una sorta di collage di risonanze. Fin dalla prima sala, tra il frottage di foglie del Verde del bosco con camicia di Giuseppe Penone, una copia del Polifilo e l’affresco pompeiano della Casa del bracciale d’oro – unico tributo alle premesse classiche di un giardino che si è scelto di trattare invece a partire dalle sue aperture rinascimentali, concentrandosi sull’Europa, e molto, davvero, sulla Francia.

Ad accoglierci, il paesaggio paradisiaco del piccolo disegno acquarellato di Dürer, dall’Albertina di Vienna, opera spartiacque, fittamente popolata di piante e animali fedelmente osservati e ritratti a far da corona alla Madonna degli animali. Subito dietro, la Biblioteca di terra di 5mtx5 del giapponese Kôichi Kurita, scrittura policroma di campioni raccolti percorrendo la Loira, le Texturologies d’écorces di Jean Dubuffet a contrappunto degli Studi di nuvole di John Constable. Un interesse per il dato naturale che anticipa l’intera serie di opere variamente ispirate alle piante dalla botanica degli orti e negli erbari cosmogonia. Quelli naturalistici, la raccolta dei muschi di Jean-Jacques Rousseau, l’erbario messo in scena su fondo nero di Paul Klee, le primordiali forme vegetali illuminate nelle foto di Karl Blossfeldt, le variazioni in scala 1:1 sul microcosmo della zolla di terra di Herman de Vries. Mentre ci calamita al monitor il pionieristico filmato scientifico del 1929 sulla Crescita dei vegetali della collezione Albert-Kahn.

Un incedere per suggestioni che scompiglia la scansione tematica imposta alla sequenza di ambienti dall’allestimento di Laurence Fontaine: appunto, Suolo, Humus – partendo dagli elementi base, spesso dati per scontati – e via via integrando, tra arte e scienza, Botanica, Arboreto, Mixed border (rigorosamente in inglese pur se in terra di Francia), fino al confronto con pretese e ostinazioni dei Giardinieri. Dalla collezione di forme dei loro utensili, all’imponente ritratto sulla soglia del Vecchio giardiniere nella tela di Émile Claus, al loro protagonismo nella cinematografia.

Nella sequenza per ambienti guidati, il piano superiore è interamente destinato alla rappresentazione. Qui, dove finalmente parlano i giardini, si avvicendano grandi visuali e ravvicinamenti.

Nelle Allées, anticipando la computer grafica, i progetti, da André Le Nôtre fino all’acquerello di Gabriel Guévrekian per il Giardino per l’esposizione del 1925, all’installazione per immagini e voce nella Fable du jardin, di Yann Monel. Mentre nei Bosquets, il giardino pittoresco di Fragonard, l’arcadia dei paesaggi di rovine di Robert interpellano la fontana di vetro di Jean-Michel Othoniel, la sua Grotta azzurra del 2017.

Dopo una sala di snodo interamente dedicata alle fotografie per lacerti di Wolfgang Tillmans, di nuovo, da un lato, con il Belvedere, gli scenari d’insieme – planimetrie di giardini rinascimentali, labirinti e grandi parchi, inventari in forma di rappresentazione cartografica, plastici che diventano raffinati tavoli – mentre, dall’altro, le prospettive si riducono in soggettiva, fin quasi a farsi intime, nella Promenade: galleria di paesaggi assoluti, inabitati. Quando tra fine XIX e inizio del XX secolo la svolta del giardino privato e, per paradosso, dello spazio pubblico cittadino, come pure lo sfolgorare della flora mediterranea, costituiranno nuove occasioni per dilatare il vocabolario plastico della modernità. La visione quasi astratta del Parco di Klimt, i pannelli decorati da Caillebotte per richiamare all’interno il giardino… fino al raggiungerci da presso della sensazione di sfrangiata incertezza tra piani della «foto» dipinta in un Giorno d’estate del 1999 di Gerhard Richter. E ancora, tra tragitto e soglia, circonvoluzioni e diffrazioni dagli ambienti dei Passages: resi in particolare tramite la fotografia. Eugène Atget, Cartier Bresson, il trionfo del lampo convocato da Jean-Baptiste Leroux a prolungare le prospettive del Gran Canal di Versailles. Mentre la sezione Jardiniste, qui in senso stretto, di artisti a un tempo giardinieri, riunisce attorno alle Ninfee disegni e foto di Monet, un Gilles Clément che racconta l’arte involontaria di un paio di vecchi scarponi ritrovati ricoperti dal muschio e, nel rendere un doveroso tributo ai maggiori paesaggisti contemporanei, francesi, l’affiorare di quella sorta di autoritratto per procura di un Paul Cézanne nelle vesti del Giardiniere Vallier.

Se l’infilata di giochi di scala proposti al Grand Palais seduce, con qualche facile ammiccamento, per la ricchezza e la libertà dell’ironia degli accostamenti, dove il ruolo di dare un ritmo, in una sorta di richiamo tra sezioni, è assegnato alla contemporaneità, quando, come si sa – e in giardino ancor più – tutto si sfrangia, il nodo teorico delle questioni poste resta sospeso.

Resta, a interrogarci proprio su un’arte dei giardini – e della sua «rappresentazione» – come sintesi, oltre la gerarchia delle arti tutte. Da sempre molto ricercata, ma che in realtà già si dà, ogni volta, a patto, per il giardino, di annullarsi per integrarle, «arte del giardino come arte della de specializzazione», arte del vivere. Come molte opere paiono suggerire. E così pure quelle con cui la mostra ci congeda: il segno transitorio del sentiero tracciato nella storica foto da Richard Long, Una linea fatta passeggiando e la scultura di polline di castagno di 7 centimetri di Wolfgang Laib, con l’accorta indicazione del titolo, Montagne dove non salire.