Il Congresso della Cgil si svolge attorno al tema “Il lavoro decide il futuro” in paese che sta vivendo la crisi più lunga dall’inizio della rivoluzione industriale. Nell’insieme delle economie sviluppate i tassi di crescita sono diminuiti dal 4% degli anni sessanta all’1% di oggi. Il sindacato, la cui rappresentatività è fortemente indebolita dalla crisi, potrà avere la forza per imporre un “Piano del lavoro” come fece Di Vittorio nel dopoguerra?
Partiamo dalla rappresentatività. Nel settore più “tradizionale” – il mondo dei pensionati – essa è indebolita perché la contrattazione nazionale delle condizioni economiche (rivalutazioni, minimi..) è stata annullata dall’austerità e quella territoriale (welfare locale, assistenza, servizi..) vanificata dalle leggi di stabilità.

Tra i lavoratori dipendenti la situazione non è migliore. La forza della crisi agisce come un grande ricatto sui dipendenti pubblici (mai c’è stato un periodo così lungo senza rinnovi contrattuali), sui dipendenti del comparto industriale dove il sindacato è sospinto a contrattare arretramenti di diritti e cassa integrazione, sui servizi dove si preparano (banche) grandi ristrutturazioni. E che dire degli oltre tre milioni di disoccupati ai quali, nel caso migliore, si dice dovete accontentarvi di restare agli ultimi posti senza illudervi di andare oltre il precariato? E come meravigliarsi se altri 3-4 milioni di persone, scoraggiate, il lavoro non lo cercano nemmeno e non entrano in questo purgatorio dei disoccupati?

La trasformazione di quello che una volta fu il “mondo del lavoro” in un lavoro senza un mondo di valori solidali e di riferimenti politici, sociali, culturali, indebolisce paurosamente la forza e la rappresentatività del sindacato. Ed il fatto che, addirittura con un Pd al governo, non ci siano idee di politiche pubbliche per lo sviluppo, di politiche industriali (dove sono finiti i pur interessanti input sui settori del futuro annunciati col job act?) e di investimenti ed incentivi pubblici, toglie inevitabilmente forza e credibilità anche al piano del lavoro della Cgil.

Se questo è il quadro della situazione, davanti alla Cgil stanno grandi interrogativi: se la forza dei soggetti collettivi dipende dalla rappresentanza dei soggetti sociali, come declinare oggi la rappresentanza di quel mondo frammentato di cui abbiamo parlato? E’ sufficiente riproporre l’obiettivo del lavoro come condizione per un futuro? Il percorso tradizionale – il lavoro realizza la persona e fornisce un reddito che consente ad essa di costruire il suo futuro – è sempre attuale e credibile? Ed è l’unico perseguibile?

Con queste domande è chiamata a fare i conti la Cgil, ma le risposte non le può cercare e dare solo la Cgil.

Esse richiedono la costruzione di una piattaforma fondata su tre pilastri: la ricerca di un nuovo sviluppo possibile, la redistribuzione del lavoro, l’introduzione di un reddito di cittadinanza.

Una ripresa della crescita va ricercata, ma non è affatto scontata. In ogni caso richiede di individuare i settori propulsivi del futuro, di dotarsi di concreti piani e di politiche industriali (magari riprendendo le idee base del piano Bersani Industria 2015 caduto nel dimenticatoio), di lanciare una “campagna di risanamento” del territorio e delle infrastrutture diffuse, finanziata dal pubblico e dal privato, con esenzioni fiscali consistenti, e gestita nei territori da istituzioni locali ed organizzazioni sociali. Non si tratta di invocare una ripresa qualunque né tantomeno che ricalchi il modello di sviluppo pre-crisi, ma di ridefinire gli obiettivi che la società deve perseguire nei prossimi anni nei campi della salute, dell’istruzione, della cultura, della qualità sociale ed ambientale ed in funzione di essi individuare i settori produttivi di beni e servizi da stimolare con politiche di sostegno, di incentivazione, di formazione professionale. In questa direzione va certamente il Piano del Lavoro della Cgil ed il congresso potrebbe essere utile per sentire cosa ne pensano ed intendono fare governo e forze politiche.

Ma fermarsi qui non è sufficiente. Sindacato e sinistre non possono procrastinare oltre la scelta di redistribuire il lavoro e ridurre gli orari. Siamo paradossalmente tra i paesi europei con la disoccupazione più alta, ma in cui i pochi occupati che ci sono lavorano di più (l’Italia ha un orario medio annuo superiore a quello di Francia, Germania, Olanda del 23% il che equivale ad oltre 3 milioni di occupati in meno). Consentire a tutti di avere la possibilità di lavorare, anche se con orario ridotto e retribuzione non piena, ma con rapporti di lavoro contrattualizzati (part time progressivo da trasformare in full time, collegamento a pensionamenti con orari decrescenti, contratti di solidarietà aziendali e territoriali…..) è una condizione essenziale per ricostruire un senso di appartenenza al mondo del lavoro e ridurre l’inoccupazione strutturale esistente e prevista.

Infine, in un contesto di massimo contenimento della disoccupazione come questo delineato, diventerebbe più praticabile la proposta, anch’essa a mio parere non procrastinabile, di un “reddito di cittadinanza”. Si tratta di costruire un’idea ed una pratica di “cittadinanza attiva”, connesse a prestazioni lavorative di utilità sociale, sia come sostegno minimo per chi non possiede altri redditi, sia come reddito integrativo per compensare riduzioni di orario e di retribuzione volontarie o necessitate.

Una piattaforma di questa portata non può essere caricata solo e tutta sul sindacato: essa richiede una sponda politica che le dia il respiro e la credibilità necessari.

Questa sponda oggi manca ed il congresso della Cgil, quindi, finisce per caricarsi di aspettative che vanno oltre le sue possibilità. Questo non esime nemmeno la Cgil dal compito di ripensarsi come rappresentanza di un nuovo mondo nel quale i confini tra lavoro e non lavoro, lavoro autonomo e lavoro dipendente, lavoro per il reddito e lavoro per il piacere, lavoro per creare valore di mercato e lavoro per creare valori d’uso sono saltati.

E, a partire da una ritrovata forza, confrontarsi a testa alta con quella politica che prima ha sposato il neoliberismo che ha generato la crisi che ha investito anche il sindacato e che adesso lo accusa di conservatorismo. Potrà essere il sindacato, a questo punto, a chiedere alla politica, di assumersi le responsabilità che le competono per guidare la profonda trasformazione che si impone. E, con questa speranza, buon congresso, cara Cgil.