Mah, qualcuno ha deciso in modo consapevole di far crollare ancora la posizione italiana nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di informazione? Già al 77° posto (su un totale di 180), il «bel paese» potrebbe avere un altro tracollo. Al riguardo, si segnala la critica espressa dalla rappresentanza dell’«Osce media».

Di che si tratta, ancora? Di una curiosa vicenda, che pure appartiene a una positiva iniziativa in discussione in queste ore al senato, vale a dire il disegno di legge (prima firmataria Lo Moro, relatore Cucca) intitolato «Disposizioni in materia di contrasto al fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali», frutto del lavoro di una specifica commissione di inchiesta.

Chissà perché all’articolo 3 è inserita una particolare aggravante per il reato di diffamazione a mezzo stampa, laddove il fatto sia commesso «ai danni di un componente di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio».

Forse gli estensori di simile (surreale) casistica che rimanda a un clima di regime (il codice Rocco a una dittatura rispondeva, del resto) hanno dimenticato che nell’attuale articolato della riforma della diffamazione quel vecchio comma non c’è più. Abrogazione decisa dalla camera dei deputati nella seconda lettura del testo, che giace ora al senato per il terzo atto nella stessa commissione giustizia che ha redatto il ddl 1932-A.

Per farla breve, non essendo ancora legge la riforma, la pena del carcere c’è, eccome. E l’aggravante ne eleva il tetto massimo da un terzo alla metà.

Nove anni in gattabuia?

[do action=”quote” autore=”Dunja Mijatović, rappresentante Osce per la libertà dei media”]«Questa pena detentiva è sproporzionata per un reato come la diffamazione, e crea un effetto negativo che penalizza il giornalismo investigativo»[/do]

Sono state nette le valutazioni giuridiche svolte dal prof. Domenico D’Amati nella conferenza promossa nei giorni scorsi dalla Federazione nazionale della stampa, da Articolo21, dall’Usigrai, dall’Ordine dei giornalisti del Lazio e da Pressing NoBavaglio.

Ha cercato di minimizzare in aula il relatore Cucca, che ha suggerito la specifica di «natura ritorsiva» nella figura di reato.

Pasticcio rischioso era, pasticcio rimane. Anche Giuseppe Lumia non si è sottratto a simile impostazione, mentre poteva almeno ricordare la relazione su mafia e informazione predisposta da Claudio Fava e approvata lo scorso 3 marzo dalla camera, che suggeriva di impegnarsi nell’individuare come peculiare reato la messa in atto della «macchina del fango».

Insomma, invece di concludere l’iter della riforma della diffamazione abolendo il carcere per i giornalisti e mettendo un freno alla cinica moda delle querele temerarie, si è tornati in pejus all’anno zero.

Introdurre qualche riga velenosa in un provvedimento importante significa inficiare un lavoro straordinario dedicato ai tanti amministratori onesti intimiditi da cosche e clan. L’informazione democratica è l’alleata fedele nelle battaglie per la questione morale. Ne fa fede l’altissimo numero di redattori, corrispondenti, precari e free lance messi nel mirino e in vari casi uccisi.

Suvvia, si elimini quel comma, che ci ributta indietro: all’età del «Corpo politico», dove la maiuscola è il particolare che ci chiarisce il quadro generale.

Esistono casi realmente avvenuti di intimidazioni attraverso un articolo o un servizio radiotelevisivo, si aggiunge. Ovviamente, nessuno si può sottrarre alla legge, meno che mai chi ha il dovere deontologico di raccontare la verità.

Ma bastano le norme in vigore. O no? Rincrudire le pene per i giornalisti è un incidente o rientra in un clima complessivo, in un contesto che ha persino sdoganato la barbarie del bavaglio?