Perché il quotidiano comunista il manifesto non conduce una campagna perché Marcello Dell’Utri possa lasciare il carcere?

Per i consulenti della procura generale di Roma, il paziente è affetto da «adenocarcinoma prostatico, coronaropatia trivasale con pregresso infarto in sede inferosettale».

E, inoltre, presenta pluripatologie croniche ad andamento progressivo quali diabete, ipertensione e cardiopatia ischemica cronica.

A causa di queste patologie, Dell’Utri è esposto a «fattori di rischio di grado elevato» ed è altamente probabile che possa essere colpito da «un evento acuto». Questo spiega le ragioni dell’istanza, presentata dai suoi legali nel mese di aprile del 2017, con la quale si è chiesto il differimento della pena per motivi di salute nella forma della detenzione domiciliare da trascorrere presso una struttura sanitaria in regime di ricovero.

D’altra parte, il medico di reparto del carcere di Rebibbia, nelle due relazioni di ottobre e novembre dell’anno in corso, conferma la diagnosi dei periti della procura generale, sottolineando come le condizioni di salute del paziente siano ulteriormente peggiorate.

Ma, il 7 dicembre, il tribunale di sorveglianza respinge la richiesta dei legali di Dell’Utri, dichiarando la sua compatibilità con la detenzione a Rebibbia. Si arriva a sostenere che la radioterapia potrà essere effettuata anche in carcere, trasportando tutti i giorni il detenuto (per 5/6 settimane consecutive) in ospedale. Si noti che, di fronte alla medesima patologia e conseguente cura (radioterapia su detenuto affetto da adenocarcinoma prostatico), era stata concessa a un altro detenuto, lo scorso giugno, la sospensione della pena per 5 mesi.

Tutto ciò induce Dell’Utri a decidere di astenersi dalle terapie e dal vitto.

Sia chiaro: Dell’Utri non chiede la grazia, ma il rispetto di ciò che ritiene essere un suo diritto, secondo quanto previsto dai nostri codici.

E su questo condivido pienamente, parola per parola, quanto dichiarato da Rita Bernardini: «Si deve garantire a Dell’Utri, come a tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni, la tutela della salute, anche attraverso misure alternative alla detenzione in carcere».

Si tratta di una affermazione saggia e ragionevole. E la faccio mia, come detto, ma segnalando, al tempo stesso, l’insidia che contiene.

Nel corso degli ultimi decenni, infatti, ho sentito ripetere (e a mia volta ho ripetuto) una simile affermazione più volte.

Ma, mentre chi la pronunciava intendeva esattamente ciò che le parole dicono, chi si limitava ad annuire, senza esporsi troppo, in realtà svuotava quelle stesse parole del loro concreto significato. E, in genere, è andata a finire che né Dell’Utri né gli altri detenuti “nelle sue stesse condizioni” siano stati sottratti alla reclusione in cella.

D’altra parte, se fossimo tutti in buona fede, come io mi sforzo di essere, dovremmo riconoscere che proprio grazie a Dell’Utri, o a Enzo Tortora, o a qualsiasi altro nome noto si è ottenuto un po’ di attenzione nei confronti della moltitudine degli ignoti, quelli senza nome, senza notorietà e senza avvocato.

Il che rende urgente, in prima istanza, battersi perché sia consentito a Dell’Utri di curarsi in condizioni le meno sfavorevoli possibile.

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Ottenere questo non è attribuire un ulteriore privilegio a chi, di privilegi, ne ha avuto una infinità nella sua vita precedente: si tratta, invece, di affermare quel fondamentale principio garantista che si articola in due essenziali assiomi.

Il primo: la tutela delle garanzie nel processo e nella esecuzione penale deve essere altrettanto rigoroso per chi si ritiene colpevole e per chi si ritiene innocente.

Il secondo: il garantismo si afferma, a prescindere dal curriculum criminale e dalle condizioni culturali, sociali, economiche, politiche ed etniche dell’interessato (avete mai visto un esponente della destra tutelare i diritti processuali di un migrante?).

Infine, riterrei cosa assai buona se un giornale “comunista” conducesse una campagna a favore del “mafioso” Marcello Dell’Utri.

Perché oltre agli ottimi motivi garantisti (condivisi, lo so, da buona parte dei giornalisti e dei lettori del manifesto), c’è un’altra ragione. Ovvero una questione, come dire, di cavalleria o, se preferite, di stile.

Vuole la leggenda che i comunisti rispettino i propri nemici e non siano mossi da pulsioni di rivalsa e, tanto meno, di vendetta.

Ricordo che, nel 2004, il manifesto, accogliendo generosamente una mia segnalazione, si impegnò perché ad Andrea Insabato, il neofascista che, nel dicembre del 2000, aveva compiuto un attentato contro la sua redazione, venisse riconosciuta l’incompatibilità con la detenzione in cella: e potesse essere adeguatamente curato.

Non fu un gesto di pietismo ma un atto politico come quello che è giusto compiere oggi a tutela della salute del “grande nemico” Marcello Dell’Utri.