Dietro la querelle sulla «cabina di regia» ci sarebbe in realtà una questione molto seria, al di là delle illazioni che si possono fare sui veri motivi che agitano la polemica in corso. Perché la necessaria discussione sulle scelte, gli indirizzi e la gestione del Paese in una fase difficilissima ed eccezionale non può essere de-rubricata a mera disputa nelle stanze alte del Palazzo.

La Storia è un fiume in piena e questa pandemia è uno di quegli eventi che ne cambiano il corso, lasciandovi un segno. Si è spesso fatto ricorso alla metafora bellica per evidenziare i due lati di quel segno – la devastazione e la necessaria ricostruzione. «La crisi peggiore dal dopoguerra», si è detto. E se noi, allora, guardiamo indietro, possiamo rivedere come quella crisi fu affrontata. Dopo vent’anni di dittatura, durante i quali il Paese sopravvisse, una guerra devastante dalla parte sbagliata ci arrivò in casa, portando distruzione e morte.

Furono coloro che resistettero che rimisero in piedi il Paese, portandosi dietro tutti gli altri che avevano acconsentito a quell’immiserimento. E misero insieme intelligenze e talenti, spirito di servizio e visione. Il Paese fu ricostruito per incamminarsi su un sentiero di sviluppo. Non con una «task force» di esperti (anche se le competenze migliori vennero sì coinvolte), non con un programma a tavolino da svolgersi nel giro di pochi mesi, ma dando prospettiva a un lavoro che avrebbe richiesto anni e condivisione degli obiettivi.

Se tra vent’anni (non settanta) guarderemo indietro a come l’Italia ha affrontato l’evento del secolo cosa potremo dire? Per quanto oggi avvertiamo come il nostro Paese si senta annichilito, sappiamo che ci sono energie vive nel suo corpo sociale che andrebbero liberate e percepiamo con mestizia una certa inadeguatezza del suo ceto politico, dei partiti e delle classi dirigenti. Certo, è noto, l’involuzione è avvenuta nel tempo. Se oggi prevalgono pulsioni dirigiste è perché per troppo tempo si è accumulata un’insoddisfazione nei confronti della democrazia e dei suoi meccanismi decisionali, una diffidenza verso gli apparati burocratici, accanto alla perduta guida che l’estinguersi di una «visione» sugli obiettivi di fondo ha provocato.

Il Paese era già guasto e la pandemia ne ha solo messo in luce le debolezze. Doveva essere, questa, l’occasione per rivolgersi alla nazione e dirle: «fate proposte, che ne faremo una sintesi». Sono mesi che la UE ci ha dato lo strumento e i mezzi – finita l’ossessione del debito – ma la risposta dei nostri governanti e dei nostri eletti in Parlamento è stata la politica politicante, la polemica nei corridoi e sui media. Non un’iniziativa per coinvolgere le forze vive del Paese, non un «tavolo» con il mondo del lavoro e delle imprese, con la società civile, non un grande «concorso di idee» (gli Stati generali di Villa Torlonia? Bel concorso, quello, di bellezza).

Se ne discute né più né meno come se si trattasse di una «manovra» un po’ più consistente delle altre. E invece noi vorremmo, oggi che la UE ci chiede un «piano», poter essere qui a discutere di contenuti, di progetti, ma anche di obiettivi, non solo di una lista della spesa già stilata. E avere Ministeri, con ministri e dirigenti (quelli che già ci sono) e magari anche consulenti, che sfornano proposte e piani, dettagliati e condivisi con le parti coinvolte.

Sono trent’anni che l’economia italiana traccheggia, gli squilibri si accumulano, le disuguaglianze persistono, le inadeguatezze rimangono. E dovremmo concentrarci su tre direttrici di fondo: le disparità sociali (nelle condizioni di vita, nell’istruzione, nella sanità), il dissesto e il degrado del territorio, l’urgenza del cambiamento climatico cui anche noi contribuiamo. Non «grandi opere», non contributi «a pioggia», neppure grandi capitoli di spesa con titoli accattivanti dietro a cui non c’è progettualità.

Risolvendo il nesso dell’incapacità di spendere fondi comunitari. La parola d’ordine dovrebbe essere investire, guardare lontano, non spesa corrente: spendere oggi per avere dopodomani un Paese più equo, dove i giovani di oggi avranno un futuro, che guarda avanti e può guardarsi indietro con orgoglio. Per non dover dire: abbiamo perduto un’occasione.

Ma, forse, dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo e confidare che delle quisquilie di Palazzo il Paese non si curi, contando sulle proprie forze, sperando che la sua classe politica non faccia troppi danni. E poi poter dire, all’italiana, «l’Italia ce l’ha fatta», ancora una volta.