Tutto comincia e finisce con le stragi della Manson Family nell’agosto 1969 , quegli eventi che incrinano il sogno perverso nel quale sono immersi i membri della «famiglia» e inizia a metterli di fronte alla reale natura delle loro azioni. La prima sequenza di Charlie Says – il film di Mary Harron presentato in Orizzonti – si svolge infatti nella villa dove si è appena consumato l’omicidio dei coniugi LaBianca. Leslie Van Houten (Hannah Murray) e altri tre compagni della setta lasciano il luogo del crimine e vanno a fare colazione insieme con l’autostop. Ma la storia della loro vita nel ranch della Family e degli eventi che conducono all’omicidio di massa sono raccontati in flashback, dalla prigione dove Leslie, Mary Brunner e Susan Atkins sono rinchiuse in isolamento tre anni dopo, quando la loro condanna a morte viene commutata in ergastolo e Karlene Faith – professoressa universitaria e attivista femminista – comincia a far loro lezione. Ed è proprio la progressiva comprensione del loro punto di vista in quanto donne che insinua in quella cieca adesione al progetto di Manson, già incrinata dallo shock della strage, un barlume di consapevolezza del male fatto. Realizzato da Mary Harron insieme alla sua collaboratrice Guinevere Turner alla sceneggiatura, Charlie Says ricostruisce a posteriori quegli eventi.

Perché un film su Manson?

Guinevere Turner: «Mi è stato chiesto di scrivere un film sulle «Manson girls», all’epoca non sapevo molto di loro ma già mi innervosiva sentirle chiamare così: ormai sono delle donne di più di sessant’anni, in carcere da oltre quaranta. Ho studiato a lungo, in cerca di un modo nuovo di raccontare una storia con la quale si sono già confrontati in tanti. Poi mi sono imbattuta nel libro Karlene Faith sul periodo che ha passato in carcere a insegnare a queste donne, e ho pensato che fosse un punto di partenza ideale».
Mary Harron: «L’interesse è nato dal momento in cui Guinevere mi ha detto che avrebbe incluso il punto di vista delle tre donne in carcere, 3 anni dopo la strage».

La regista Mary Harron

Nella vicenda della Manson Family si incrociano molte storie individuali. Come avete trovato il giusto equilibrio?

GT: «Tutti i personaggi coinvolti avevano una storia affascinante da raccontare, per cui mi sono soprattutto rivolta al libro di Karlene, che appunto si concentrava sulla vicenda di Leslie, Mary e Susan. Ma la vera chiave di volta è la figura di Leslie, l’empatia che si riesce a provare nei suoi confronti».

Esiste un forte movimento di opinione in favore della liberazione di Leslie Van Houten

MH: «John Waters dice sempre che Leslie e le altre hanno passato più tempo in prigione dei condannati del processo di Norimberga. Ma Charlie Says non è un lavoro militante, non lo abbiamo fatto per prendere posizione».

Come avete lavorato nel portare sullo schermo gli omicidi?

MH: «Appena ho letto la sceneggiatura, in cui la strage era appena abbozzata, ho subito detto che invece avremmo dovuto raccontarla nel dettaglio. Alle protagoniste è stato fatto il lavaggio del cervello, e nel raccontare la loro storia una delle sfide è stato non imprigionarle nello stereotipo del mostro. Ma al contempo il pubblico deve potersi confrontare con la realtà di ciò che hanno fatto».

Questo non è il suo primo film tratto da un caso di cronaca

MH: «A differenza di I Shot Andy Warhol, l’interesse qui è nei confronti di persone ordinarie che fanno delle cose terribili. Per questo non ci siamo concentrate sul loro passato: non ci importava un approccio psicologico individuale, scoprire i loro traumi, ma raccontare delle normali donne che in condizioni straordinarie annullano la propria volontà individuale – e questo può accadere a persone provenienti da ogni genere di background».

Qualcosa di simile a ciò che sta accadendo nel partito repubblicano?

MH: «Effettivamente è bizzarro vedere l’intero partito comportarsi come se fosse una setta. Su internet ho trovato una lista delle 20 «qualità» del leader di un culto: leggerle è strabiliante perché sono tutte caratteristiche che si possono ricondurre anche a Trump, incluso l’estremo narcisismo, l’assenza di empatia, la richiesta di fedeltà incondizionata».
GT: «Come Manson anche il nostro presidente di solito dice cose senza senso. E il motivo per cui la gente crede in lui è che, sempre come Manson, crea una dicotomia tra noi e loro, in cui tutto ciò che si trova «al di fuori» è malvagio».