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Dieta mediterranea preda prelibata del marketing

Dieta mediterranea preda prelibata del marketing

Slow food Pensiamo a espressioni belle e abusate, svuotate dei concetti a cui si riferiscono, da renderle insopportabili: resilienza, sostenibilità, salute, green, Made in Italy

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 1 agosto 2024

In un sistema estrattivista che sistematicamente si appropria delle risorse naturali, anche il linguaggio – quindi la narrativa – è oggetto di colonizzazione. E in tempi nei quali la comunicazione sovrasta la realtà, lavorare sul linguaggio e manipolarlo è determinante.

Viene sistematicamente costruito un dibattito polarizzato che genera schieramenti contrapposti a cui aderire: questo avvilisce la dialettica e disabitua al pensiero. Chi ha più potere economico, si appropria e controlla parole, concetti e mezzi di comunicazione – come ogni altra risorsa – rappresentando, così, la società nel modo più funzionale. Pensiamo a espressioni belle e abusate, svuotate dei concetti a cui si riferiscono, da renderle insopportabili: resilienza, sostenibilità, salute, green, Made in Italy.

Parole in realtà ingombranti perché i loro significati sottendono a un sistema valoriale ed etico. Ma una volta abbandonata tale zavorra e reiterate spregiudicatamente, diventano addomesticate: le produzioni industriali diventano «green», la tecnologia è la chiave per la «resilienza», la carne coltivata è «sostenibile» e la sovranità alimentare significa Made in Italy.  In questa cornice che nel maggio scorso viene presentata Mediterranea, come la popolare dieta che dal 2010 è patrimonio culturale immateriale dall’Unesco.

È un’associazione non riconosciuta costituita da una delle maggiori organizzazioni di rappresentanza dell’industria alimentare e una confederazione agricola, con la finalità chiara di incrementare l’efficienza produttiva, accrescere la competitività sui mercati esteri, in definitiva generare, meglio e di più, profitto. La vecchia logica che ci ha portato a questo livello di degrado ambientale e sociale, che rivendica la necessità dei nuovi Ogm, che difende l’utilizzo dei pesticidi, che promuove il cibo generato in laboratorio, che ritiene necessario, finanche inevitabile, l’attuale modello industriale di allevamento che, solo in Europa, è causa dell’occupazione 70% della superficie agricola per produrre mangime e foraggio invece che cibo per le persone. Niente di più lontano dall’idea che abbiamo di dieta mediterranea.

Un regime alimentare che ha alcuni cibo-simbolo quali i cereali, l’olio, i legumi, il pescato, ma in generale, un’alimentazione a base di prodotti freschi, non processati. Alcune delle materie prime o delle ricette simboli della dieta mediterranea sono preda del marketing perché funzionali alla vendita e, quindi, a massimizzare il profitto.

Uno studio della Sapienza del 2014 stimava in 35 mld di euro circa, l’importanza della dieta mediterranea come brand nella Gdo: quasi il 46% del totale delle vendite e ben il 60% del settore food & beverage venduto. In ragione di ciò il mito della dieta mediterranea è quotidianamente rilanciato per tenere alto l’interesse dei cittadini, che, al contrario, di fatto adottano sempre più diffusamente abitudini alimentari globalizzate: regimi alimentari slegati dalle stagioni e dal territorio, a base di prodotti processati, raffinati e conservati, sbilanciati in termini di eccessivo apporto proteico di origine animale, grassi e zuccheri.

I tratti comuni nelle variegate diete dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono la territorialità e la stagionalità, l’uso di materie prime grezze e il forte legame culturale con la vita sociale delle ricette tradizionali. Questo perché il cibo è complessità: nel semplificare la complessità, riducendola, si codifica l’approccio meccanicistico che sorregge un sistema predatorio che sfrutta e degrada; nell’accogliere invece la complessità, approfondire, cogliere ed evidenziare sfumature ed eccezioni, cercare di ascoltare osservare e capire, con umiltà, c’è l’opportunità di rigenerazione di cui abbiamo tremendamente bisogno.

La bellezza senza etica è marketing, cioè messaggio funzionale al commercio. La ricerca scientifica, senza un sistema valoriale, è merce di scambio. Il cibo, se non è un diritto inalienabile, diventa commodity. Serve ribaltare la violenza di questo paradigma e uscire da una logica il cui solo parametro è il ritorno economico. Servono impegni concreti sul piano normativo, una mobilitazione popolare a fianco dei lavoratori sfruttati, una cultura nuova che restituisca valore al cibo e alla vita stessa. Serve costruire una società che riconosce a tutte e tutti il diritto a una vita di prosperità e pace, e al cibo buono pulito e giusto che la nutre.

* Presidente di Slow Food Italia

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