Poche inquadrature, tempi dilatati, una canzone in inglese, un dramma famigliare, ma soprattutto una tecnica di realizzazione che combina insieme, in formato originario 35mm, live action e animazione digitale in modo poco distinguibile. Ed è proprio in questa messa in scena, perturbante e teatralizzata, che risiede il fascino di The Parents’ Room, il cortometraggio di Diego Marcon, prodotto dal museo MADRE di Napoli grazie al contributo di Italian Council, bando del Ministero della Cultura che promuove gli artisti italiani all’estero, selezionato alla Quinzaine di Cannes. Più che un film, come si addice a un artista visivo che privilegia spesso nei suoi lavori l’utilizzo delle immagini in movimento, questa opera audiovisiva è simile a un quadro, a una narrazione «cantata» e congelata, che si svolge in un solo ambiente e che risucchia lo spettatore nel suo gorgo, terribile ed affascinante al tempo stesso. Del resto anche in altri suoi lavori, monocanale ma sempre installati (magari con proiettori 16mm, come nella più pura tradizione del cinema sperimentale), il trentaseienne artista di Busto Arsizio ci aveva abituato ad enigmatiche atmosfere rarefatte: pensiamo a Ludwig o a Il malatino, dove l’immaginario infantile e fiabesco – carico di un’iconografia vicina al cartoon classico o alla sua sofisticata evoluzione digitale – diventano il pretesto per restituire una diversa visione sul mondo e sulle cose, trasmettendo un senso di smarrimento, solitudine e perdita, tutti motivi che in The Parents’ Room raggiungono un alto grado di sintesi e perfezione stilistica.

Ti sei formato prima nel campo del cinema e poi in quello delle arti visive, scegliendo da un po’ di anni di privilegiare l’animazione nei tuoi film. È una tua passione?

Fra il cinema che preferisco c’è quello di intrattenimento e di genere, tra cui i cartoni animati e – più in generale – il cinema per ragazzi e per famiglie. Soprattutto, l’animazione (sia tradizionale che digitale) è una tecnica che permette un controllo pressoché totale di ogni fase di lavorazione, oltre che di percepire in maniera marcata – quantomeno durante le fasi di progettazione e di realizzazione – la struttura, che sono entrambe cose che amo molto.

Come nasce l’idea di «The Parents’ Room» e da cosa l’esigenza di utilizzare, ancora una volta dopo «Ludwig», una narrazione musicata?

Mi interessa che i lavori costituiscano anzitutto un dispositivo emotivo capace di accerchiare lo spettatore e di trascinarlo in un confronto con l’opera che si sviluppi in una dimensione sentimentale. Nella creazione di questo dispositivo la musica ha un ruolo centrale.

Rispetto agli altri tuoi film, qui hai scelto di utilizzare attori reali con trucco prostetico.

Al momento non ho alcun desiderio di confrontarmi con attori e performer, anzi è un pensiero che mi respinge. Aggiungere a corpi e volti delle protesi e maschere a copertura totale annulla ogni possibilità di espressività e restituisce al film dei personaggi le cui fattezze e presenze credo risultino finemente ambigue e perturbanti. In qualche modo The Parents’ Room è una sorta di film in stop motion, che acconciando esseri umani come fantocci annulla i movimenti a scatti tipici di questa tecnica e che ho sempre trovato un po’ bruttini.

Quindi possiamo considerarlo un film a pupazzi animati umani?

Volendo sì, come forse ogni film.

Immagino che The Parents’ Room assumerà, al di là delle proiezioni ai festival, una sua forma installativa all’interno dei musei. Quale?

Come molti altri miei lavori recenti The Parents’ Room nasce come loop – un film circolare che idealmente gira all’infinito. Senza titoli di testa né coda la struttura del lavoro costituisce infatti un cerchio perfetto e chiuso su sé stesso. Così verrà installato il film nei luoghi dell’arte contemporanea e in alcuni cinema, in cui gli spettatori potranno entrare in sala, restare e uscire a piacere. Stabilire per il frammento del loop un inizio e una fine, aggiungendo titoli di testa e di coda con precisi tempi e interventi, sono scelte importanti, che credo modifichino in maniera sostanziale la percezione del lavoro assieme all’ambiente e al contesto in cui viene mostrato.

Di recente è uscito un libro dal titolo «Oh mio cagnetto». Perché hai deciso di scrivere una novantina di poemetti dedicati a un cane e pensi si potrebbe tradurlo in film?

Credo che scrivere le poesiole sia stato una sorta di esercizio sul senso di perdita e di mancanza, e sulla malinconia, che sono sentimenti che provo molto spesso. Mi ha inoltre molto divertito scrivere Oh mio cagnetto e mi auguro che il libercolo stesso alla fine risulti piuttosto divertente. Il cagnetto è per me una sorta di figura retorica che spero permetta al lettore di relazionarsi con qualsivoglia senso di perdita. Rispetto alla trasposizione cinematografica penso che sì, forse si potrebbe tradurre il libro in film, ma io personalmente non ne ho voglia né intendo farlo.

Sei piuttosto avvezzo alle vetrine internazionali come il festival di Rotterdam. Ma cosa ti aspetti dalla proiezione di Cannes?

Una proiezione in una sala grande e qualche foto divertente con i miei amici e collaboratori.