«Vite e destini» era il tema del festival dell’Opera di Lyon 2019, sviluppato calcando l’accento sul rapporto fra storico e contemporaneo, soprattutto per le produzioni principali, Charodeika (la Maliarda) di Caikovskij, alla prima esecuzione in Francia, e Didon et Enée Remembered, creazione di teatro musicale ibridata con l’opera di Purcell. In questo contesto il terzo titolo, la riduzione del Ritorno di Ulisse in Patria di Monteverdi, storico spettacolo per voci e marionette di William Kentridge e Philippe Pierlot, con la Handspring Puppet Company e Ricercar Consort, nato nel 1981 e rimontato di recente anche al Teatro Massimo di Palermo, sembrava un grande classico contemporaneo.

FRA I PUNTI di forza della prima francese di Charodeika c’era la direzione partecipe e fluida di Daniele Rustioni, che ha saputo gestire la scrittura densa e dalle delicate dinamiche palcoscenico-orchestra nonostante il coro fosse incongruamente tenuto fuori scena dal regista ucraino Andriy Zholdak. Non era il solo arbitrio di uno spettacolo cui va riconosciuto un notevole impatto visivo, anche per via delle belle scene mobili di Daniel Zholdak, figlio del regista: il dramma russo dell’ostessa Kuma, più che un’incantatrice una sorta di procace Carmen degli Urali, contesa fra due principi, padre e figlio, e infine avvelenata dalla principessa sua doppia rivale, era trasformato in un’allucinata fantasmagoria prodotta dall’immaginazione maniacale del bigotto chierico Mamyrov, nemico giurato di Kuma. Zholdak mescola virtual glasses a scene di kink e sadomaso, riferimenti al Kill Bill di Tarantino, balletto russo e religiosità popolare, interni da piano quinquennale e il lusso pacchiano delle neo-élite russe.

UN CALEIDOSCOPIO disorientante che stordisce e lascia ammirati più che altro per la resa scenica dei protagonisti, dalla vocalità piena e estroversa: il baritono Evez Abdulla e il tenore Migran Agadzhanian, principi padre e figlio, Ksenia Vyaznikova, vendicativa principessa, e la voluttuosa protagonista, Elena Guseva, la migliore del cast. Più coerente il taglio di Dido and Aeneas Remembered, creazione in cui il regista ungherese Daniel Marton, in team con il compositore finlandese Kalle Kalima e il direttore Pierre Bleuse, proponeva un itinerario drammaturgico-musicale che raddoppiava i tempi dell’opera di Purcell: ogni numero dell’opera era inframmezzato e fuso in ampi passaggi recitati e intermezzi musicali di notevole varietà e efficacia, in un gioco di contrasti che esaltava la musica di Purcell. Il tutto ambientato in uno sito archeologico di un prossimo futuro distopico, in cui due divinità scavavano dalla polvere l’intera storia, insieme ai reperti del passato perduto della modernità, musicassette, VHS, mouse, smartphone. Kalle Kalima, chitarrista con radici nel jazz e nel rock sperimentale, usa la chitarra da virtuoso per affondi violentissimi ma anche come mobilissimo continuo. Alix le Sauz, Dido, Guillaume Andrieux, Eneas, rispettano lo stile antico, mentre la Belinda di Claron McFadden gioca da vera virtuosa a cavallo fra i generi.

DEFLAGRANTE performance per la vocalist Erika Stucky, una Diamanda Galas in sedicesimo, una strega e uno spirito post-punk ma anche una Venere più minacciosa che materna. L’interpretazione di Stucky e degli altri si incrociava con quella delle divinità convocate sulla scena per dirigere in prosa i destini umani, ostacolando o guidando Enea verso le rive italiche, gli attori Marie Goyette, Iuno, e Thorbjörn Björnsson, Jupiter. Un pubblico curioso e giovane ha festeggiato a lungo gli interpreti delle due opere.