Quando uscì per la prima volta, nel 1989, la biografia di Michel Foucault scritta da Didier Eribon si rivelò un libro precoce e preziosissimo. Il poco tempo trascorso dalla sua morte non era stato ancora sufficiente né a canonizzarne il pensiero, né a storicizzarne la figura, eppure il racconto di Eribon riusciva subito a guardare la vicenda di Foucault in prospettiva, ancorandola al racconto di un’epoca ricostruita in filigrana attraverso il ritratto di un protagonista. Dall’immediato dopoguerra agli anni del gaullismo, dalla tempesta del maggio ’68 fino all’avvento del governo socialista di Mitterrand, un vero e proprio affresco dello scambio fra le idee e i mutamenti sociali faceva non da sfondo, ma da controcanto alla cronaca di una vita.

Al tempo della sua prima pubblicazione, oltretutto, non solo non esistevano monografie che ricostruissero il cammino filosofico di Foucault nel suo insieme, dagli esordi agli ultimi lavori, ma anche i moltissimi testi da lui pubblicati nelle riviste e nelle occasioni più diverse non erano accessibili come lo sarebbero stati già solo altri cinque anni dopo, quando vennero raccolti in ordine cronologico nei quattro corposi volumi dei Dits et Écrits.

Lo scambio con Derrida
Poco dopo sarebbe venuto il momento degli inediti, a cominciare dalla serie dei corsi tenuti al Collège de France, dai cicli di conferenze nelle università d’Europa e d’Oltreoceano, testi ai quali si sono aggiunti, in anni più recenti, anche l’ultimo volume della Storia della sessualità (Le confessioni della carne) e persino altre esposizioni orali, fra cui due corsi sempre sulla sessualità, che risalgono rispettivamente al 1964 (Università di Clermont-Ferrand) e al 1969 (Paris-Vincennes).

Non sorprende perciò che all’ennesima ristampa di questa biografia, nel 2012, Eribon abbia sentito il bisogno di aggiornarne il materiale facendo riferimento anche a memorie e a brevi estratti di corrispondenza pure pubblicate nel frattempo: molto incisivo, da questo punto di vista, lo scambio di lettere con Jacques Derrida intorno al commento su Storia della follia che Eribon riporta e che, partendo dai toni di un confronto teorico tanto schietto quanto amichevole, si sarebbe trasformato in pochi anni in un vero e proprio scontro filosofico di ampia risonanza.

Nonostante le aggiunte, le integrazioni, le precisazioni, la chiave di lettura e l’impianto del libro di Eribon sono rimasti intatti e questa biografia mantiene tutta la sua freschezza, oltre che la sua utilità, per il preciso lavoro di montaggio dei documenti, per le testimonianze raccolte con lo spirito del giornalista di inchiesta, per l’alternanza precisa fra il racconto della vita e l’esposizione delle opere.

Quando uscì per la prima volta, si disse che proprio questo parallelo fra vita e pensiero era stato spinto troppo in là, che facendo leva su una frase lasciata cadere da Foucault in un’intervista Eribon avesse esagerato nel ricondurre la maggior parte delle sue ricerche a «frammenti di autobiografia», che l’accento posto sulla difficile relazione con il padre, chirurgo, sul suo disagio psichico giovanile e soprattutto sulla sua omosessualità avessero di fatto finito per ridimensionare la portata di un’opera non riducibile agli effetti di situazioni private.

In fondo è il cruccio di ogni impresa biografica che non rinunci anche a uno sforzo di comprensione intellettuale e del resto non mancherebbero, in Foucault, segnali da leggere in senso contrario rispetto a quanto fa Eribon: dall’insistenza sul fatto che la scrittura sia anche un mezzo per cancellare il volto dell’autore fino al rifiuto di categorizzare gli individui in base ai loro comportamenti, di definire cioè l’essenza di tipi umani e sociali come possono essere «il criminale» o, appunto, «l’omosessuale», a partire da ciò che hanno fatto o fanno.

In diverse occasioni Foucault ha argomentato queste sue posizioni, prendendo per esempio le distanze dall’idea di una cultura gay, oppure reagendo contro la «morale da stato civile» che «regna sui nostri documenti», ma che dovrebbe lasciarci «liberi almeno quando si tratta di scrivere». Eribon cita questa frase, tratta da L’archeologia del sapere, ma la usa accentuandone solo un lato, la dichiarazione «non chiedetemi di restare lo stesso», per argomentare i più o meno appariscenti cambi di rotta nel pensiero di Foucault. Sembra trascurare, invece, la forza delle parole che la introducono: «non chiedetemi chi sono».

A rileggere però questa biografia nella sua versione aggiornata, l’eco del già debole scandalo suscitato al momento della prima uscita appare poca cosa rispetto alla maestria con la quale Eribon riesce a inserire Foucault nel «paesaggio culturale» dell’epoca senza tacerne i tabù, scavando nei doppi fondi della vita accademica e di quella politica, delle relazioni sociali e di quelle sentimentali.

Un lettore che non abbia già familiarità con i libri di Foucault vi troverà un primo avvio facilitato dalla chiarezza della scrittura, mentre uno già in contatto con la sua opera non salterà, probabilmente, le stesse pagine che avrebbe saltato nel 1989, quando le scoperte sui testi citati da Eribon superavano di gran lunga l’interesse suscitato dalle vicende personali: la tesina presentata a Jean Hyppolite sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel, finora mai ritrovata, la tesi complementare di dottorato sull’Antropologia di Kant e il progetto di un libro su Manet, tutte cose che in seguito sarebbero diventate di dominio pubblico. Piuttosto, avendo ormai a disposizione molte ricostruzioni di carattere filosofico, l’attenzione si concentrerà allora proprio sui passaggi che riguardano gli ambienti frequentati da Foucault, sulle testimonianze che Eribon ha raccolto intervistando a tappeto i compagni di studio, gli allievi, gli amici, gli avversari, in Francia e fuori dalla Francia.

Pierre Rivière, un rivale
La scrittura di Eribon è minuziosa e scorrevole. Se a volte sfiora l’indiscrezione è per dare al libro il tono non di un’agiografia, ma di una testimonianza militante: probabilmente l’obiettivo che più gli stava a cuore. Si è portati per mano fra tanti progetti annunciati o coltivati senza che diventassero mai concreti. Si riconosce la curiosità inesausta che portò Foucault a viaggiare a lungo senza vestire i panni del turista. Si getta uno sguardo sugli spazi segreti della gestazione di un’opera, come nel caso di Storia della follia. E, per un temperamento che si dice essere stato ironico e incline al sarcasmo come quello di Foucault, si scoprono anche aneddoti divertenti, per esempio il fatto che «Pierre Rivière», l’omicida ottocentesco di cui Foucault pubblicò e commentò il formidabile memoriale, fosse anche il nome di un suo compagno di liceo, quello che con successo gli contendeva il primato a scuola.

Così, fra storie di piccola taglia e altre più grandi, Eribon ci presenta con vividezza non un Foucault «come io l’immagino» – titolo di Maurice Blanchot – ma probabilmente molto vicino a ciò che davvero è stato e che nessuna biografia concepita solo come una carta di identità più estesa avrebbe avuto il potere di raccontare.