Louvain la Nueve, trenta chilometri da Bruxelles, è una città senza storia. La sua data di fondazione risale infatti al 1969, quando il governo belga decise di costruirla per farne la sede dell’Università Cattolica di Louvain. Qui vanno e vengono ogni giorno cinquantamila studenti, trentamila quelli residenti. Dal 2009 ospita il Museo dedicato a Georges Prosper Remi, in arte Hergé, il creatore di Tintin. E forse, guardando a quanto stiamo per raccontare, potrebbe non essere una semplice coincidenza.

Nel 1978, a Louvain la Neuve, vivono i coniugi Swysen. Hanno un figlio, Didier, che frequenta la terza elementare nella scuola del sobborgo di Biéreau. Un mattino, Didier si trova accanto un nuovo compagno di banco, Kazuo. Suo padre, Yoshiki Morimoto, docente universitario giapponese, è venuto in Belgio per compiere ricerche sulla storia socioeconomica del periodo carolingio. Le due famiglie stringono amicizia, Didier diventa inseparabile compagno di giochi di Kazuo, che attraverso i libri, le cartoline, i racconti, i fumetti di Goldrake, gli fa scoprire il Giappone. Un anno dopo i Morimoto tornano a casa. Ma è solo un arrivederci. Anche monsieur Swysen è rimasto affascinato dal Paese del Sole Levante, e decide di andarci a lavorare per qualche tempo come ricercatore. Moglie e figlio lo raggiungono nel dicembre del 1981.

La vacanza segnerà profondamente Didier, che visitando il Memoriale di Hiroshima scoprirà l’Ombra: simbolo della più disumana tragedia del Ventesimo Secolo. Sotto una cupola di vetro, il Memoriale conserva parte dei gradini d’ingresso alla Sumitomo Bank Company. Su di essi l’esplosione della prima bomba atomica, il 6 agosto 1945, alle 8 e 15, dissolse il corpo di una donna, lasciandone impressa la sagoma scura. Si chiamava Mitsuno Ochi, quarantadue anni, era in attesa che la banca aprisse.

Didier, oggi quotato sceneggiatore di fumetti con lo pseudonimo di Didier Alcante, ricorda: «Sono uscito dal museo con due interrogativi assillanti: come si era potuti arrivare a tanto e quale era potuta essere la storia di quella persona – ombra. Da allora ho voluto scrivere un libro che rispondesse ai miei interrogativi. Divenuto sceneggiatore, del tutto naturalmente ho cominciato a pensare che ci fosse materia per un incredibile graphic novel».

È un frammento tratto dalla postfazione del graphic novel La bomba, appena uscito in Italia per L’ippocampo, settantacinque anni dopo la distruzione di Hiroshima. Dunque il sogno bambino di Alcante si è avverato, affrontando, è sempre lui a raccontarlo nella postfazione, non poche difficoltà. «Nel 1983 avevo letto il manga Fen d’Hiroshima, realizzato da un hibakusha (cioè da un sopravvissuto al bombardamento atomico), che raccontava la propria storia. Che c’era da dire di più? E che diritto avevo».

È solo uno dei tanti problemi a monte di una piccola impresa editoriale, «come sintetizzare il tutto; come evitare le caricature, i giudizi affrettati, le approssimazioni storiche e scientifiche; come restituire una visione oggettiva delle cose pur avendo un punto di vista». Ci sono voluti quattro anni di lavoro a partire dal 2015, la stretta collaborazione dello sceneggiatore Laurent Fréderic Bollé e le matite del disegnatore canadese Denis Rodier (22 tavole al mese) per trovare le riposte dentro 470 pagine di una ricostruzione dei fatti quasi giornalistica per ritmi e stile narrativo. «Crudeltà» e «cinismo», parole chiave di tutto il racconto, strettamente legate tra loro senza un confine morale a dividerle, dominarono il mondo tra il 1938 e il 1945.

Teatri di La bomba, prima, durante e dopo lo scoppio del secondo conflitto mondiale, sono Berlino, Roma, Varsavia, Mosca; Rjukan, un paese della Norvegia e la sua fabbrica di uranio, sperduto come Los Alamos, New Mexico, città laboratorio di Little Boy, nome dell’ordigno atomico numero uno. E poi, Washington, New York, Pearl Harbour, l’Oceano Pacifico della Guerra tra Cina e Giappone, il mare interno di Seto su cui affaccia il porto di Hiroshima.

Protagonisti di La Bomba sono gli scienziati Enrico Fermi, Leo Szilard, Werner Karl Heisenberg, Robert Hoppenheimer, Józef Rotblat, Klaus Fucks; il generale Leslie Groves, sostenitore entusiasta della supremazia americana ad ogni costo, e gli anonimi soldati morti senza sapere il vero perché; Franklin Delano Roosevelt, Harry S. Truman, Adolf Hitler, Josif Stalin, Winston Churchill, l’imperatore Hirohito. E ancora: i medici che iniettarono consapevolmente il plutonio nelle vene di topi e cavie umane, i corpi speciali di sabotaggio, gli uomini dei servizi segreti, i kamikaze. E soprattutto loro, la gente di Hiroshima: sessantamila vittime al momento di un’esplosione pari a quindicimila tonnellate di tritolo, arse viva a una temperatura di tremila gradi.

Diventeranno duecentomila negli anni successivi. Nella gara a costruire un’arma così letale da non sapere quali conseguenze avrebbe prodotto, ma indispensabile ad affermare la supremazia di un paese sull’intero pianeta, vinsero gli Stati Uniti. Ci fu chi ebbe dubbi, chi all’ultimo tentò di opporsi, chi sostenne la tesi della decisione inevitabile; chi, come il premio Nobel Enrico Fermi, «si dispiacque» perché il pontefice Pio XII aveva espresso dolore. Uno solo, Robert Hoppenheimer, si fece interprete della terza parola chiave, «rimorso». Lo fece citando una frase dal poema indiano Mahabharata: «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi».