Quanti di noi, tecnicamente disarmati anche se appassionati melomani, si sono sentiti frustrati compitando a fatica raffinate analisi musicologiche o, viceversa, ritirandosi esasperati dalle chiacchiere a ruota libera sui sentimenti suscitati da una sinfonia di Beethoven o da un preludio di Chopin? Qualcosa di simile avviene con la critica d’arte, anche se, quando si ha a che fare con l’arte rappresentativa (cioè che mostra qualcosa di nominabile), sembra più facile tradurre in parole il significato di un dipinto e l’imbarazzo della chiacchiera è più frequente. Mikel Dufrenne, nella Phénoménologie de l’expérience esthétique, ha enunciato una sorta di teorema: «il coefficiente di pittura in un dipinto è inversamente proporzionale al numero dei commenti ispirati dal suo ‘soggetto’» (cioè da ciò che rappresenta): a suggerirglielo – dice – è stata la lettura dei Salons di Denis Diderot, di cui ora esce la prima traduzione integrale con testo a fronte a cura di Maddalena Mazzacut-Mis (Bompiani, Il pensiero occidentale, pp. 1894, € 70,00).

Il giudizio di Dufrenne
Contiene gli otto resoconti dell’esposizione biennale organizzata dall’Académie Royale de peinture et de sculpture che l’enciclopedista scrisse tra il 1759 e il 1781 per la Correspondance littéraire, il giornale manoscritto in poco più d’una decina di copie destinato a Caterina II e a sovrani tedeschi o scandinavi.
A Diderot venne permessa una libertà di critica e di pensiero che non gli sarebbe mai stata possibile in patria, sia da parte degli artisti, che avevano già reagito in maniera risentita ai primi resoconti critici pubblici, considerandoli una indebita intromissione nel loro mestiere di letterati incompetenti, sia da parte delle autorità che non avrebbero mai sopportato le sue intemperanze politico-filosofiche.

Sui Resoconti, il giudizio di Dufrenne, che precede la recente rivalutazione critica degli scritti d’arte di Diderot, è sommario ma non immotivato. Quando, per esempio, per commentare La fanciulla che piange il suo uccellino morto di Greuze (Salon del 1765: è il dipinto riprodotto in copertina), Diderot imbastisce un dialogo con il personaggio raffigurato, inventando di sana pianta la storia secondo lui implicita (la bestiola era un dono dell’innamorato che l’ha sedotta e la sua morte le sembra di cattivo augurio e così via) e concludendo che la fanciulla dipinta è così bella che non gli «spiacerebbe troppo essere la causa di tale dolore», la tirata è davvero in grado di suscitare un moto di irritata insofferenza. Per noi, figli di Kant, questa confusione tra l’arte e la vita può essere solo un errore filosofico imperdonabile oppure un facile espediente retorico: e che di un trucco si tratti lo ammette lo stesso Diderot anche nella celebre «passeggiata Vernet» (Salon del 1767). Sono trentacinque pagine in cui finge di camminare chiacchierando con un interlocutore attraverso vari siti che sono in realtà altrettanti dipinti del grande paesaggista, salvo appunto concludere dichiarando, era facile indovinarlo, che «per rompere la monotonia delle descrizioni ne aveva fatto dei paesaggi reali e li aveva incorniciati con dei dialoghi». Per fortuna, qui l’espediente non è soltanto funzionale alla celebrazione dei dipinti di Vernet, ma costituisce anche l’occasione per una serie di divagazioni su vari temi: perciò, la conversazione diventa una breve ma vivacissima trattazione filosofica in forma di dialogo, la stessa in cui Diderot ha scritto tutti i suoi capolavori.

Nei panni del lettore
Nel corso di questi rapidi affondi ce n’è uno in cui lampeggiano, di scorcio, le tesi del Paradosso sull’attore: a teatro lo spettatore è «doppio», «recita due ruoli», quello dell’attore che soffre sul palcoscenico e, appunto, quello dello spettatore che prova piacere allo spettacolo. Ora, anche l’autore del Salon, quando fa la commedia e finge di credere al quadro come a una cosa reale, in realtà si mette nei panni dei suoi lettori e dice loro quanto vogliono sentirsi dire, cioè quello che Diderot fa loro credere che proverebbero se potessero vedere il dipinto. In termini più sintetici, e utilizzando una distinzione proposta da Barthes a proposito di Sade, non bisogna leggere i Salons in modo mimetico (ché allora ha ragione Dufrenne), ma in modo semiotico: «per chi sa gustare le strategie del discorso – ha scritto Jean Starobinski – i Salons sono una lettura appassionante», non solo perché la prosa dell’enciclopedista trova gli accenti giusti quando si concentra sull’analisi delle opere dei veri e grandi pittori che sa identificare con sicurezza (come, per esempio, Vernet o Chardin), non solo perché è capace di introdurre inaspettate ma felicissime digressioni (come quando riscrive a modo suo il mito platonico della caverna o discute il rapporto tra il lusso e le arti), ma perché anche le pagine più smaccatamente mimetiche rispondono a precise strategie comunicative.

Non si può mai dimenticare, infatti, che i Resoconti di Diderot non erano corredati da alcuna immagine: dunque il lettore odierno, che potrebbe rimpiangere l’assenza nel volume di un apparato iconografico, si trova esattamente nella posizione dei lettori originari. Donde l’utilizzo di tecniche discorsive in grado di comunicare per iscritto il senso e la forma delle immagini: gli studi più recenti sui Salons escono in un clima di un rinnovato interesse per le procedure dell’ékphrasis, che classificata dalla trattatistica retorica come parte dell’orazione, già nell’antichità e di più nel periodo della seconda sofistica si era emancipata in quanto genere autonomo, dedito alla descrizione di opere d’arte figurative o plastiche. Si rifà, piuttosto, a una tradizione che, inaugurata dall’omerico scudo di Achille, continua, per esempio, fino all’angelo scolpito nel marmo del Purgatorio di cui Dante (anche lui!) dice: «giurato si sarìa» che parlasse tanto era «verace» e arriva fino all’Ode on a Grecian Urn, e ai Rebus di Sanguineti.

Il genere investe il rapporto tra la parola e l’immagine, vale a dire un nodo di questioni che hanno trovato una sistemazione teorica destinata a durare a lungo nelle pagine coeve del Laocoonte: Lessing del resto stimava Diderot e aveva in particolare studiato la Lettera sui sordomuti, dove si gettano le fondamenta di quelle annotazioni sparse che costituiscono, ha detto Jean Seznec, i disjecta membra di un Laocoonte francese; certo un Laocoonte non sistematico (si sa che l’enciclopedista non amava i sistemi), ma non per questo meno saldamente radicato in quelle indagini gnoseologico-semiotiche sulla genesi dei linguaggi afferenti ai diversi organi di senso (oltre a Diderot bisogna ricordare almeno Condillac e Buffon) che rivoluzionano dalle fondamenta il vecchio tema umanistico del paragone fra le arti e dell’ut pictura poësis.

Per questo versante della critica d’arte di Diderot sono importanti i Saggi sulla pittura, qui pubblicati insieme ai Salons (a cura di Massimo Modica), nei quali compare anche la dichiarazione di poetica rimasta famosa: «rendere la virtù amabile e odioso il vizio, mettere in risalto il ridicolo: questa è l’intenzione di ogni uomo onesto che prenda in mano la penna, il pennello o lo scalpello». Proprio questa concezione della funzione moralizzatrice provoca gli attacchi di Diderot all’arte rococò, in particolare a Boucher e ai suoi più significative eredi, Baudouin e Fragonard. Tanto più colpevoli in quanto indubbiamente dotati e abili, questi artisti sono capaci solo di dipingere «culi paffuti e vermigli» nelle mitologie galanti in cui si specchia la loro frivola e corrotta committenza; ad essi l’enciclopedista contrappone appunto i buoni sentimenti esibiti esemplarmente nei lavori di Greuze, che inscenano ambienti umili ma pieni di dignità e di rettitudine morale in cui risalta la sfera degli affetti familiari, quella stessa che Diderot, nella riforma drammatica da lui proposta in antitesi alla commedia e alla tragedia classiche, avrebbe voluto mettere al centro del dramma che sarà detto borghese.

Un erotismo contraddittorio
Singolare è la convivenza di queste istanze (che culmineranno nel neo classicismo rivoluzionario, vera e propria arte di propaganda, inaugurato da quel David di cui Diderot fa appena in tempo a salutare le prime prove) con istanze opposte. Così la sdegnata denuncia delle sensuali nudità esibite dalla pittura disimpegnata (o meglio impegnata a stuzzicare il gusto corrotto della ricchezza oziosa) si accompagna al dichiarato disprezzo per la mitologia cristiana, capace solo di ispirare diavoli «gotici» e un’arte cupa e triste: in tono volutamente blasfemo è esaltata la religiosità pagana e si immagina un Cristo che alla nozze di Cana, un po’ brillo, è incerto se dedicarsi al seno delle damigelle della sposa o alle natiche dell’apostolo Giovanni.

Compiaciute, queste scurrilità fanno parte di un erotismo di cui partecipano anche le non meno indugiate invettive morali, che si spingono fino a giustificare la distruzione delle opere capaci di corrompere l’innocenza soprattutto delle fanciulle: è un erotismo dunque complesso e contradditorio, che sembra offrire un terreno d’elezione a indagini psicoanalitiche, non ultima ragione di interesse per i Salons nel lettore di oggi.