«Bisogna avere un cuore di pietra per non scoppiare a ridere quando si arriva alla morte della piccola Nell»; bisogna avere una penna tagliente come un bisturi per riuscire, come Oscar Wilde in questa celebre battuta, a circoscrivere in 100 caratteri l’imbarazzo e i sensi di colpa dei quali una storia come quella della «piccola Nell», eroina del romanzo di Dickens La bottega dell’antiquario (The Old Curiosity Shop, 1841), dovette gonfiare il cuore di un intero universo sociale. Che nella fattispecie è quello della società britannica di metà Ottocento, còlta nel punto in cui sta per spiccare il suo volo di conquista globale.

Solo quattro anni prima una sequenza di morti premature aveva portato sul trono la regina Vittoria, un’altra «piccola», anche di statura: una timida diciottenne, molto religiosa e con un inglese incerto. Sua madre, la severa principessa di Sassonia-Coburgo, l’aveva allevata in tedesco. Ma l’olio dell’unzione regale aveva fatto sbocciare nell’adolescente la regina. Vittoria affrontò i suoi nuovi compiti con teutonica determinazione. Insofferente delle trame di corte, pretese in sposo il cugino Alberto e ne fece il suo consigliere. In un’inedita sintesi di passione privata e fedeltà al ruolo pubblico, produsse nove figli. Proprio lei che non amava i bambini dei valori della famiglia fece il sigillo dell’età.

Ora i bambini…
Un velo di feroce ipocrisia fu steso su tutto quanto sembrasse minacciare quei valori. Perché, sì, i bambini prima di tutto: ma anche i bambini come prime e privilegiate vittime di un sadico sistema di controllo, dei sensi e della mente, che condizionò intere generazioni. Donde i diffusi sensi di colpa ancora avvertibili nel dissacrante aforisma wildiano.
Da questo punto di vista, il ventinovenne Dickens mostrò di aver perfettamente afferrato il nodo della questione quando fece della morte della piccola Nell il punto sensibile del lungo e complesso road novel che è La bottega dell’antiquario. I critici si sono spesso stupiti di questo titolo, dato che il negozio appare solo nelle prime pagine e sembra star lì solo per essere abbandonato. Ma il fatto è che proprio di quell’abbandono si nutre la fuga della bambina verso l’amara salvezza della morte. Prima di raggiungerla, dovrà attraversare quelle zone d’ombra che sono per lei il teatro degli ambulanti, il gabinetto delle figure di cera, la povera scuola di campagna, le più o meno ospitali locande, per fermarsi alla fine presso una diroccata abbazia con annesso cimitero.

La morte di Nell Dickens la riprese al rallentatore: la studiò nelle sue più minute gradazioni, la pospose oltre i limiti del credibile, e infine sferrò il colpo. E nel comporre quella pagina pianse «disperatamente», quasi avesse perduto una persona cara, come confessò all’amico e futuro biografo John Forster. Con quel pianto dimostrò che di pietra era prima di tutto il suo cuore di scrittore. Cosa gli sarebbe costato concedere la grazia a quella creatura di carta, tanto più che così facendo avrebbe assecondato la richiesta, sempre più pressante, delle migliaia di suoi lettori e fans sparsi per il Vecchio e il Nuovo mondo? Ma se lui avesse ceduto a quella tentazione il romanzo avrebbe mancato il bersaglio. Come Cesare, Nell doveva morire. Non dei classici stenti, percosse e privazioni dai quali tanti suoi piccoli personaggi sono contristati, ma di famiglia. Nell doveva mostrare che di famiglia, ancor più che di prigione o di workhouse, si può morire. In epoca di femminicidio diffuso è forse una banalità sottolinearlo, ma all’epoca il romanzo risultò scioccante.

Un vizioso proteiforme
Nella scena dell’uccisione, Bruto, che di Cesare è il figlio adottivo, invita i romani a bagnarsi le mani nel sangue ancora caldo della vittima. Anche la morte incruenta della piccola Nell ha i tratti dell’uccisione sacrificale: a tingersi le mani del suo sangue rappreso, nel gelo ibernante dell’ultimo riparo che la accoglie, è il gruppo familiare allargato, a ciascun componente del quale lei si è offerta come terreno d’esercitazione di un vizio preminente: pruriginoso voyeurismo, avarizia, brama di ricchezza, sadismo. Tutte maschere della lussuria a stento trattenuta che lungo le circa seicento pagine del romanzo le circola attorno. La sua grazia acerba di indifesa tredicenne è il punto verso il quale tutti gli sguardi convergono. Questa costruzione corale fa del vizioso una figura proteiforme, o camaleontica, che prende il colore del momento: assumendo ora le sembianze torbide del nonno, ora quelle turpi dello gnomo Quilp, ora – ma in secondo piano, come in un double plot shakespeariano – quelle bullistiche del fratello Fred, pronto a far mercato dell’amata sorellina.
Tra il nonno e il nano Nell si è già mossa a lungo, quando il romanzo inizia, con la docilità di uno strumento meccanico. I suoi aguzzini sono il nano lubrico e il nonno affettuoso fino alla demenza: in coppia. Legati l’uno all’altro dal vincolo innominabile di una disperata pedo-filia, che dell’oggetto d’amore vuole la morte.

Perso nel miraggio di restituire a Nell la ricchezza che lui stesso le ha tolto, ogni giorno il nonno mette la bambina sulle strade di Londra, perché raggiunga l’abituro fluviale di Daniel Quilp, la creatura maligna e deforme che gli invierà il denaro per le sue giocate notturne. L’insana passione del vecchio per la piccola Nell si veste dei colori delle carte da gioco, sulle quali, come le spiega in un’occasione memorabile, «sta scritta la fortuna». In nessun momento il diaframma tra sesso e azzardo venale è più vicino a rompersi. Per la prima volta, la bambina vede l’uomo in azione: il volto accaldato, i denti serrati, gli occhi fissi, il respiro roco e ansimante le parlano di qualcosa che lei ancora non conosce, e tuttavia già teme. Quella notte stessa, il nonno si insinuerà nella sua stanza, frugherà con mani tremanti il suo vestito in cerca delle poche monete che lei vi ha cucito dentro. Poi sgaiattolerà via, non senza aver ripiegato con cura l’indumento, guscio del corpo che non gli è consentito toccare. La censura vittoriana non poteva permettere che si andasse oltre.

Per Quilp è il «lettino» di Nell, «così piccolo e ben allestito che ci avrebbe potuto dormire una fata», l’oggetto vicario del corpo di lei. Quando capisce che dal nonno non c’è più niente da spremere, il nano punta i suoi occhi gialli di bile su Nell, che è ancora lì in attesa di risposta all’ultima disperata richiesta del vecchio. La strada è aperta al soddisfacimento, almeno fantasticato, dell’inconfessabile passione. Nell è lì, non costa nulla: basta stendere la mano e coglierla. «Che ne diresti di diventare la seconda signora Quilp?» le chiede a bruciapelo. Non subito certo, perché la prima è ancora viva, ma fra qualche anno, quando quella sarà morta – evento alla cui realizzazione i suoi maltrattamenti stanno provvedendo alacremente – e lei sarà matura per le nozze.

La piccola trema e si ritrae, ma lui la trascina via con sé. Una volta insediato nella casa, destinerà la stanzetta di lei al proprio uso personale, prendendo subito possesso del fatato lettino. Assediata da questa atmosfera di imminente stupro, morale e fisico, Nell ha imparato a difendersi mettendo a punto una tecnica di sottrazione di sé che altro non è se non un allenamento al morire, e che tuttavia – nello spazio del romanzo – la rende inafferrabile, e pertanto tecnicamente invincibile. Questa sua capacità di distacco la bambina la applica prima di tutto alle cose che la circondano: di qui la necessità strutturale del negozio evidenziato nel titolo. Lo si vede bene quando, sul momento di fuggire, ha la tentazione di prendere con sé qualche oggettino ricordo, ma poi subito vi rinuncia: non era possibile. La casa non era più sua. No, per la «piccola Nell» l’era dei souvenir non è ancora incominciata. Come è solita ripetere, senza una casa lei è addirittura più felice. Per il familismo vittoriano un’amara sconfitta.