Nell’indifferenza dell’Europa in ben altre faccende affaccendata, durante questo primo semestre del 2016 sono sbarcati sulle coste italiane 1200 minorenni egiziani (e chissà quanti altri non ce l’hanno fatta). Una novità assoluta per l’Egitto.

Sbaglia chi pensa che sia solo la povertà a spingere dei ragazzini ad affrontare una traversata perigliosa: no, a spingerli è l’imbarbarimento di un Paese a cui il gen. Al-Sisi ha tolto oltre la speranza economica anche l’incolumità fisica.
Sono ormai migliaia i giovani incarcerati, torturati e spariti nel Paese che persistiamo a considerare l’antemurale contro il terrorismo islamico, invece di capire che a fomentarlo è proprio la repressione di Stato.

Non è un caso che l’Egitto di Al-Sisi sia diventato la pietra angolare di un’alleanza innaturale fra Arabia Saudita e Israele, benedetta dal cinico mercantilismo europeo e osteggiata finora solo da Obama, l’unico ad averne percepito i pericoli. Dal cinismo a corta vista dell’Europa dovrebbe e potrebbe smarcarsi almeno l’Italia, cominciando a dichiarare l’Egitto «Paese a rischio», in nome di Giulio e delle migliaia di altri Regeni egiziani.

Il 26 giugno – giornata che le Nazioni unite dedicano alle vittime della tortura in base all’imbelle Convenzione internazionale adottata il 26 giugno 1987 – è un’occasione di risveglio delle coscienze; e per non riaddormentarle, basta far sì che la morte sotto tortura di Regeni diventi una cause célèbre. Il caso Dreyfuss sarebbe rimasto confinato nel novero dei tanti episodi di antisemitismo ignorati dall’opinione pubblica, se non ci fosse stato un grande scrittore a sollevarlo.

Il caso Regeni non ha bisogno di un Emile Zola: basterebbe la diplomazia italiana, in alleanza con la diplomazia «popolare».

* ex ambasciatore in Somalia e in Libano