La Colombia è già in campagna per il referendum. La data per la consultazione popolare che dovrebbe ratificare o respingere la firma degli accordi tra governo e guerriglia non è ancora stata fissata perché tutte le tappe della soluzione politica non si sono ancora concluse. La legge stabilisce che, dopo la firma dell’accordo finale, sottoscritto dalle due parti a compimento della road map, il referendum deve aver luogo in un lasso di tempo che va dai 30 ai 45 giorni. Se vince il sì, tutte le sfere del potere pubblico, dall’esecutivo al giudiziario, benché esistano scappatoie per appellarsi, dovrà applicare gli accordi. Se vince il no, si deve tornare al negoziato, che ha preso avvio quattro anni fa in Norvegia ed è proseguito all’Avana. Lì, il 23 giugno, si è realizzato uno storico accordo tra le due parti per portare a soluzione politica un conflitto armato che dura da oltre cinquant’anni.

Il referendum non è sul diritto alla pace, ma per approvare o rifiutare il contenuto degli accordi raggiunti all’Avana, e nulla vieta alle parti di tornare a discutere i punti rimasti dolenti. E’ stato il compromesso accettato dalle Farc, che avrebbero voluto convocare un’assemblea costituente e mettere subito le basi per un cambiamento strutturale. Invece, non si parlerà di amnistia se non dopo l’approvazione del referendum. Intanto, mentre proseguono le trattative con l’altra storica guerriglia, quella guevarista dell’Eln, domenica Farc e governo hanno annunciato di aver portato a termine un altro punto chiave dell’accordo: la visita alle 23 zone di concentrazione della guerriglia dopo la smobilitazione dei combattenti, sotto l’egida dell’Onu e della Celac. Le ispezioni sono iniziate il 7 agosto e vi hanno partecipato 150 persone, tra delegati del governo, generali che fanno parte della Sottocommissione tecnica di fine conflitto, 33 rappresentanti delle Farc, personale della Croce rossa, osservatori Onu e dei paesi garanti, Norvegia, Cuba e Venezuela.

Nel paese, però, il dibattito è già rovente. Da una parte, vi sono le forze progressiste che, come l’ex presidente Cesar Gaviria, coordinatore della campagna per il sì, avvertono che «se vince il no vincerà la guerra». Dall’altra, le componenti capitanate dall’ex presidente Alvaro Uribe, feroce avversario degli accordi di pace. In prima fila, il procuratore Alejandro Ordoñez, che in questi anni ha spianato la strada a Uribe con le sue sentenze politiche, tese a eliminare avversari scomodi come la senatrice Piedad Cordoba. Sempre in prima fila nel promuovere la pace in Colombia, la senatrice era stata inabilitata per 18 anni per presunto fiancheggiamento della guerriglia. Ora, però, un tribunale ha accolto il suo ricorso, potrà riprendere il suo posto al senato e dovrà essere anche risarcita.

Uribe, padrino del paramilitarismo, porta avanti la sua campagna contro «l’impunità» e accusa Manuel Santos (il suo ex ministro della Difesa) di «voler consegnare il paese alle Farc». A Bogotà, nel primo dibattito pubblico sul tema, Gaviria ha ricordato che, dopo gli accordi conclusi da Uribe, molti paramilitari sono già liberi. E ha citato il caso di Ramon Isaza, che gira per le strade della capitale benché, insieme alla sua famiglia, sia responsabile e reo confesso di oltre 20.000 omicidi. Dei 31.000 paramilitari che hanno abbandonato (apparentemente) le armi, ne sono stati processati solo 31. E – ha detto ancora Gaviria – solo un milione di pesos sono stati destinati al risarcimento delle vittime.

Intanto, prosegue lo sciopero nel dipartimento del Choco, uno dei più poveri sui 32 che compongono la Colombia. Domenica e lunedi, i manifestanti, che chiedono garanzie, educazione e servizi, hanno animato una gigantesca marcia e annunciato che non si fermeranno.