Il messaggio inviato al mondo di fronte all’Assemblea generale dell’Onu lo scorso settembre dal neopresidente Miguel Díaz-Canel è stato chiaro e forte: «Siamo la continuità, non la rottura». Era la risposta a un interrogativo che in molti – soprattutto all’estero, ma anche nell’isola- si erano posti.

Innanzi tutto dopo la morte di Fidel (il 25 novembre 2016), poi dopo la decisione del fratello Raúl di lasciare la presidenza ( febbraio 2018): che cosa sarebbe successo a Cuba senza un Castro alle redini del Paese sessant’anni dopo il trionfo della Rivoluzione?

Il delfino nominato da Raúl ed eletto all’unanimità dall’Assemblea nazionale del potere popolare ( aprile 2018) lo ha ripetuto in varie occasioni. L’inizio della transizione generazionale che lui (cinquantenne) rappresentava si sarebbe mossa nella strada iniziata da Fidel e poi percorsa dal fratello dal 2006: la difesa di Cuba sovrana, indipendente e socialista.

Tale continuità ripetuta come un refrain contiene però una sorta di dualità che si è manifestata anche nei primi otto mesi del governo di Díaz-Canel.

Negli ultimi 27 anni, il tempo trascorso dallo scioglimento dell’Unione sovietica, i fratelli Castro hanno governato Cuba – quindici anni Fidel e dodici Raúl- unico paese socialista dell’emisfero occidentale a confrontarsi col capitalismo globale.

Il fratello maggiore dei Castro ha resistito e combattuto la globalizzazione guidata dagli Stati uniti. Il minore ha resistito con una politica più pragmatica, attuando una maggior apertura agli investimenti e ai crediti dall’estero, una dilatazione del mercato interno e del settore non statale dell’economia e un realismo diplomatico che ha avuto la sua più eclatante espressione nella normalizzazione dei rapporti diplomatici con gli Usa e col viaggio del presidente Barack Obama all’Avana (aprile 2016).

L’obiettivo delle riforme volute da Raúl è un «socialismo prospero e sostenibile» nel quale il mercato gioca un ruolo, seppur subordinato alla programmazione statale.

Miguel Díaz-Canel foto Afp
Miguel Díaz-Canel foto Afp

 

Fin dalla sua nomina Díaz Canel si è dichiarato «fedele al (lascito politico del defunto) leader storico della Rivoluzione e al leader attuale» .

Insomma, secondo vari analisti, una mediazione tra due «correnti» esistenti nel Partito comunista: un «fidelismo ortodosso» e la linea più pragmatica e riformatrice di Raúl (appoggiato dai militari che di fatto controllano buona parte dell’economia del paese).

La storia del «giovane» neopresidente lo indicava come un ottimo candidato a tale mediazione: cresciuto nel partito fin da ragazzo, in collegamento con i giovani e con efficienza ne ha scalato velocemente la vetta a Villa Clara per poi essere elevato alla guida del Ministero della Salute e alla vicepresidenza del Consiglio di Stato.

Da Fidel ha ereditato l’ambizione magnifica, ma difficilissima, di essere tutto per tutti, di farsi carico di ogni dettaglio, di proclamare che lo Stato deve garantire il benestare di ogni cittadino.

Privo del carisma personale di Fidel ha cercato di compensare questo svantaggio e di dimostrare la sua leadership con un energico spiegamento di riunioni, di visite a quartieri e province, a fabbriche e scuole, di ricevimenti di personalità straniere e di missioni all’estero (le ultime in Russia, Cina, Vietnam).

E infatti in politica estera vi è continuità col pensiero di Fidel con la conferma dell’alleanza strategica col Venezuela e il blocco bolivariano e con un riavvicinamento alla Russia di Putin.

Così non è in tema di economia.

Il nuovo progetto di modernizzazione (riforme) prevede un’ampia offerta del mercato cubano al capitale estero con un avanzamento verso un capitalismo di Stato e con un ruolo complementare del capitale privato – il lavoro por cuenta propria – oggetto di una severa regolamentazione.

Questo progetto richiede un pragmatismo internazionale che supera la diplomazia ideologica.

Di fronte alla crescente aggressività dell’Amministrazione Trump, che ha attuato una decisa marcia indietro rispetto a Obama e ha rafforzato l’embargo con misure tendenti a colpire il turismo, una delle voci fondamentali del budget cubano, e ripreso una politica di ingerenza col dichiarato fine di abbattere il governo socialista dell’isola, diventa importante recuperare i vincoli con l’Europa.

La visita a novembre del primo ministro spagnolo Pedro Sánchez si inserisce in questa linea che può dare buoni risultati se si accompagna a un impulso delle riforme economico-sociali iniziate da Raúl ed in una prospettiva futura anche politiche.

Anche il progetto di nuova Costituzione varato l’estate scorsa e oggetto dell’esame di milioni di cubani riuniti in assemblee di quartiere, caserme, scuole o nei posti di lavoro risente di questa dualità.

Lo scopo principale è mettere le basi per modernizzare l’isola e far finalmente decollare l’economia liberandola (parzialmente) dall’inefficienza di un pervasiva e asfissiante burocrazia mediante l’apertura (regolata) al mercato e alla proprietà privata, e soprattutto agli investimenti esteri.

Il tutto però conservando il controllo politico, affidato al partito (unico) comunista – che rimane «la forza superiore (anche rispetto alla stessa Costituzione) dello Stato e della società» – e in gran parte del pensiero unico, dato il controllo totale dell’informazione e l’assenza di una opposizione riconosciuta.

«L’anno che inizia, il sessantesimo dalla vittoria della Rivoluzione, sarà cruciale per il futuro dell’isola che si gioca soprattutto in campo economico» – afferma il sciologo Aurelio Alonso. «Questa è la sfida che affronta Díaz-Canel: consentire ai cubani di vivere col loro lavoro. Dei dirigenti formati dalla rivoluzione è il più adatto a affrontare questo compito difficile, ma necessario per continuare le riforme, anche politiche».