Cartagena. Andare da Istanbul a Napoli passando per il porto di Cartagena de Indias, in Colombia, può sembrare una piccola assurdità e un ossimoro geografico. È quel che è successo qualche sera fa nel porto della più bella città coloniale del Caribe, un porto pieno di hangar commerciali e di attività (anche notturne) di carico e scarico. Adibito per una notte a suggestivo scenario del Festival Internacional de Musica (fino al 15 gennaio), il porto è certamente uno degli spazi più bizzarri scelti dagli organizzatori di questa prestigiosa kermesse che per il resto ha collocato il proprio consistente bazar di eventi in location più tradizionali come il Teatro Adolfo Meja, la Plaza San Pedro, la Capilla Santa Clara, il Claustro la Merced, il Convento Cierro de la Popa…Ma il porto è uno spazio significativo, soprattutto se lo si lega al tema del festival di quest’anno: il mar Mediterraneo, il «Mare Nostrum» che è da sempre teatro reale e mitologico d’incontri, scontri e relazioni tra popoli, culture, tradizioni e musiche.

Musiche colte e musiche di tradizione orale che hanno trovato nel festival una collocazione frastagliata ed esaustiva attraversando sostanzialmente tre grandi bacini d’indagine: la prima includeva opere musicali del repertorio europeo colto votate alla raccolta e all’assimilazione d’influenze, contaminazioni e suggestioni provenienti da varie regioni del mediterraneo (El amor brujo di De Falla, il concerto Egizio di Saint-Sae«ns, il concerto per violino e orchestra Nr.5 di Mozart, le Cinque melodie popolari greche di Ravel, le turchere di Rossini, fino a Il Velo protettore per violoncello e orchestra di John Taverner e allo Spasimo di Giovanni Sollima); la seconda includeva i repertori di musica tradizionale di zone geografiche del mediterraneo particolarmente identificate con tradizioni musicali folcloriche come il Meridione d’Italia, la Grecia, la Turchia, i Balcani, l’area ebraica, la Spagna gitana; la terza infine si dedicava a progetti in cui l’elemento identitario era costituito esattamente dall’influenza reciproca tra musiche di matrice colta e musiche di tradizione orale (Poeta di Vicente Amigo, i Nuovi racconti mediterranei di Enrico Pieranunzi).

Come si vede, un viaggio immaginifico e poderoso che nel caso del concerto serale al porto di Cartagena si concentrava sostanzialmente sulla seconda matrice di questo immane palinsesto, una matrice che consentiva agli astanti di attraversare un corpo d’acqua, sulle cui rotte (in particolare su quelle che vanno da Istanbul a Napoli) viene celebrata da sempre anche una diaspora di ritmi, melodie, vocalizzi, tonalità. In uno dei tanti punti equidistanti (si sa, il Mediterraneo è anche il mare dei paradossi..) nei quali Oriente e Occidente si congiungono, ovvero a Istanbul, andava a collocarsi il palinsesto proposto in apertura di serata dal quintetto del turco Kudsi Erguner. Capofila della musica rituale delle cerimonie mevlevi (quella legata alla pratica dei dervisci rotanti), Erguner è nato a Diyarbakir nel 1952. Tutta la sua carriera è stata caratterizzata dall’approfondimento della tecnica di uno strumento antichissimo come il nay e da un recupero e una riscoperta cocciuta delle tradizioni musicali dei propri avi, tradizioni che hanno rischiato a un certo punto anche di andare perse, perché nel 1925 e per qualche decennio la corte ottomana proibì il sufismo e i riti (anche musicali) legati ad esso.

Esempi fulgidi di questo retaggio, l’inclusione nel concerto a Cartagena di composizioni di Sultan Abdul Aziz, Tanburi Cemil Bey, Kevser Hanim e Zeki Memmed Aga, quattro grandi compositori della musica classica ottomana che in genere si basa sulle scale modali del maqam, scale che regolano anche i dettati della musica sufi. Il set di Erguner comprendeva anche canzoni popolari turche, musiche del compositore greco Xarvhacos Stavros, un tradizionale cipriota – To Yasemi – e un altro classico del folk del bacino del Bosforo – Uskudara goder iken – nel quale al quintetto si è¨ congiunto l’Ensemble Mediterraneo capitanato da due alto-sassofonisti: il perugino Cristiano Arcelli e il napoletano Marco Zurzolo. Al primo nella restante porzione di concerto toccava l’onere degli arrangiamenti, al secondo il materiale originale e le scelte compositive. Scelte che includevano la tradizione musicale partenopea e quella di molti altri meridioni d’Italia: dal Salento griko di Kalinikta alla Calabria di Riturnella, fino a un consistente portato di composizioni originali di Zurzolo, anch’esse perlopiù ispirate al bacino mediterraneo e ai suoi porti.

Arricchite dal contributo del quintetto d’ottoni Gomalan, del clarinettista Gabriele Mirabassi (un aficionado di questo festival), del trombonista Massimo Morganti e dell’innesto a sorpresa dell’Orquesta Sinfonica Joven de Cartagena, queste musiche hanno certificato ancora una volta quanto certi stilemi e certi melismi partenopei siano il prodotto di un’eredità complessa che tocca molte identità mediterranee, comprese quelle del Cairo che Zurzolo ha citato esplicitamente nel titolo di un brano e quelle di Istanbul, che avevano propiziato il gemellaggio nobile con il sufismo di Erguner.
Del resto, la storia di questo mare, l’hanno suggerito anche i tanti imput concertistici proposti del festival di Cartagena, è tutta una storia di continui ribaltamenti, rimbalzi, slittamenti, stratificazioni. Strumenti, stili, musicisti, compositori, non possono che riflettere queste osmosi e queste implosioni.