Gli studi postcoloniali e l’arte contemporanea del Sudamerica non godono di grande seguito in Italia e questo ha reso particolarmente interessante la mostra di Dias & Riedweg, curata da Anna Cestelli Guidi e tenuta a Roma, nella doppia sede dell’AuditoriumArte – Parco della Musica e di Macro Testaccio. Mauricio Dias (Rio de Janeiro, 1964) e Walter Riedweg (Lucerna, 1955) sono due artisti di diversa nazionalità e formazione che lavorano assieme dal 1993, avendo eletto Rio a propria base operativa.

L’ESPOSIZIONE all’ex mattatoio, Other time than here. Other place than now, è stata la loro prima rassegna italiana e ha offerto un consuntivo di oltre quindici anni di attività, con opere concepite per occasioni e momenti differenti ma tutte in qualche modo collegate alla questione del relativismo culturale nelle sue infinite sfaccettature. L’allestimento, nel complesso ben congeniato, ha saputo trarre vantaggio dalla lugubre atmosfera del padiglione che, forse per gli echi del suo passato o per la dabbenaggine delle recenti gestioni, effonde sempre un’aura di desolazione, qualunque cosa ospiti. Dias & Riedweg fanno ampio e abile uso del video, ad esempio in Throw (2004), in Moving Truck (2009-2012), nella serie di valigette duchampiane Suitcases for Marcel (2007) o nel truculento Flesh (2005). In mezzo al percorso espositivo era collocata La casa degli altri, videoinstallazione realizzata durante il soggiorno romano degli artisti che tratta di migrazione ed emarginazione.

AUDITORIUMARTE ha accolto invece Funk Staden, versione semplificata di un’installazione video a tre canali prodotta originariamente nel 2007 per documenta 12 a Kassel. Qui Dias & Riedweg esplorano i temi dell’esotismo e dell’alterità prendendo spunto dal libro di Hans Staden intitolato Vera storia e descrizione di uno Stato di persone selvagge, nude, sinistre, cannibali nel Nuovo Mondo (1557). Già caro a Lévi-Strauss, il testo di Staden, soldato tedesco scampato alla prigionia presso la popolazione dei Tupinamba, è un archetipo della letteratura coloniale. Nel volume, illustrato da xilografie, Staden racconta le sue peripezie e descrive i costumi degli autoctoni brasiliani. Dias & Riedweg stravolgono la prospettiva xenofoba di Staden riadattando le sue immagini allo scenario odierno della favela; ne escono parodie di riti tribali in cui risuona l’orgoglio antropofago di Oswald de Andrade.

IL DUO ha quindi il merito di riattualizzare una tradizione (che si riallaccia, tra gli altri, a Tarsila do Amaral e ai parangolé di Hélio Oiticica, o anche all’antropologia di Viveiros de Castro) che in Brasile è viva e presente e, allo stesso tempo, passata e dimenticata. Nella sala esterna, Funk Staden è preceduta da una proiezione monocanale su monitor (Book) e da alcune fotografie (Woodcuts), sempre legate al libro.
Dias & Riedweg possono vantare opere in importanti collezioni pubbliche e un notevole elenco di partecipazioni a biennali in tutto il mondo. Evidentemente il sistema dell’arte internazionale ha subito apprezzato la loro capacità di tradurre valori locali in un’estetica ovunque esportabile.

IL RICORSO a un metodo etnografico ha permesso agli artisti di calarsi in contesti anche molto dissimili tra loro – Egitto, Venezia, Liverpool, la frontiera tra Messico e Usa –, riuscendo a cavarne lavori formalmente impeccabili, che farebbero gola ai creativi delle multinazionali. Il limite della produzione di Dias & Riedweg sembra dunque quello di fornire una risposta perfetta a una domanda di consumo culturale globalizzato; ovvero, in altre parole, quello di usare contro il nuovo colonialismo armi che in realtà ne portano il marchio di fabbrica e che contribuiscono perciò a perpetuare il suo dominio.