Con La lezione di Raffaello. Le antichità romane, Roma conclude le celebrazioni per il cinquecentenario dalla morte dell’artista avvolgendo la sua persona in un abbraccio intimo. Contraltare alla magnificenza delle Scuderie del Quirinale è una raccolta sala presso il Complesso di Capo di Bove, una delle sedi del parco dell’Appia Antica, dove gratuitamente e fino al 29 novembre sarà possibile immergersi nel diario sentimentale intessuto tra un genio del Rinascimento e lo scorrere del tempo.
Ventisette opere, tra sculture, quadri e disegni, dialogano con due protagonisti, al centro anche del catalogo edito da Electa: una lettera di Raffaello riprodotta digitalmente, che il pubblico potrà sfogliare e ascoltare; un originale manoscritto di Pirro Ligorio.

«È UN CERCHIO che si chiude – secondo Simone Quilici, direttore del parco archeologico -. In un luogo deputato alla tutela, questa mostra ne racconta le origini. Nella letteratura occidentale, la lettera indirizzata da Raffaello e Baldassarre Castiglione a papa Leone X è infatti il primo testo pienamente moderno a occuparsi della necessità di proteggere i monumenti antichi; i disegni di Ligorio, che riguardano in gran parte l’Appia Antica, rappresentano la primigenia applicazione dei criteri in essa enunciati».
Capo di Bove accoglie anche l’archivio di Antonio Cederna, l’intellettuale cui si deve, nella seconda metà del Novecento, la grande battaglia per la salvaguardia dei beni culturali e del paesaggio italiano, ingaggiata con una serie di articoli contro i «gangsters dell’Appia».
«Gli allestitori hanno scommesso su un apparente cortocircuito: di fronte ai quadri raffiguranti Raffaello, si è deciso di conservare la biblioteca di Cederna», puntualizza Quilici. «Contiene libri sulla storia della tutela, di cui narriamo le vicende nell’esposizione permanente al piano terra dell’edificio».
Cronache di salvataggi, di perdite. All’altezza di Capo di Bove, lungo il terzo miglio dell’Appia, sorgeva ancora nella metà del Cinquecento un Tempio di Proserpina. Lo scopriamo osservando un rilievo di Pirro Ligorio, eseguito a penna su carta azzurrina e inserito nel Libro XLVIII delle Antichità, un manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli e finora mai esposto a Roma.
«Ligorio indagò con razionalità i venti monumenti sepolcrali presi in esame lungo la via Appia, procedendo secondo quel metodo della pianta, dell’alzato e della sezione introdotto appunto dalla lettera a Leone X», spiega la curatrice Ilaria Sgarbozza.
La lettera fu scritta a mano nel 1519, ma non fu resa pubblica e fu attribuita per oltre due secoli al solo Castiglione, nonostante si trattasse dell’introduzione a una pianta antiquaria di Roma alla quale stava lavorando Raffaello e che, alla sua morte, restò pertanto incompiuta. Il manoscritto, che esalta la bellezza della città e ne compiange la decadenza, fu dato alle stampe finalmente nel 1733, di nuovo a firma di Castiglione. «Tutto cambiò quando, nel 1799, all’Accademia di Belle Arti di Firenze una prolusione di Daniele Francesconi ne certificò l’autografia raffaellesca», aggiunge la curatrice. A quel punto, non sorprende che la comunità artistica lo elevasse a testo di riferimento.

ERANO QUELLI gli anni delle requisizioni napoleoniche: pale d’altare raffaellesche venivano strappate dalle chiese e portate al Louvre, producendo grande agitazione nei vari stati italiani. «L’offesa arrecata al pittore padre della patria doveva essere un argomento di attualità sulla bocca di tutti», racconta Sgarbozza. «Per questo ricondurre la lettera a Raffaello fu un atto potente, tanto che il documento fu tradotto in inglese nel 1805 e, tre anni dopo, fu inserito da Quatremère de Quincy, un erudito amico di Canova, nella sua vendutissima biografia dell’artista».
Grazie al traino del francese, all’epoca la lingua della cultura internazionale, Raffaello divenne ovunque misura, modello di stile alto, garanzia di accademia investita di senso dalla cucitura con l’antico. In Italia, il retrogusto era però amaro. «Roma non era più la capitale delle arti: insistere su Raffaello, che in città aveva realizzato i sui capolavori, significava voler disperatamente tenere alto il valore e il ruolo della corte pontificia», chiarisce Sgarbozza. «Nella mostra ci sono due disegni di Jean-Auguste-Dominique Ingres. Lui per tutta la vita copiò Raffaello, anche da anziano. Perché l’urbinate era l’artista di tutti: rappresentava una cultura istituzionale intenzionata a mantenere come cifra quel classicismo che presto sarebbe collassato».

EPPURE LO SGUARDO del visitatore, sulla parete lunga posta di fronte alla biblioteca di Cederna, è catturato proprio dalle atmosfere nostalgiche dell’Ottocento. Prima del disgregarsi delle forme classiche sotto i colpi di dovute sperimentazioni rivoluzionarie, raggiunse la sua massima forza il mito di un artista di corte che sorprendentemente era divenuto anche eroe popolare, se non santo. Un olio su tela di Francesco Hayez lo raffigura morente nella notte di venerdì santo. Un frate gli impartisce gli ultimi sacramenti. La Fornarina, e con lei la bellezza del passato, fugge disperata.