È stato uno dei migliori film visti a Doclisboa. Il suo autore si chiama Naeem Mohaimemen, è bengalese, vive negli Stati uniti, è fotografo, saggista, video-artista. Il suo film ha un titolo enigmatico, The Young Man Was (2015) è diviso in tre parti di forma e contenuto molto diverse, l’ultima delle quali, «The Last Man in Dakha Central», era presentata come un film a parte in concorso. Non se ne tradisce lo spirito se si riassume il contenuto dicendo che si tratta di un percorso attraverso la lotta armata degli anni settanta. Vasto programma che Naeem inquadra dentro una prospettiva inedita: si tratta di organizzare il materiale partendo e ritornando dal Bangladesh, cercando l’effettività delle idee rivoluzionarie nel loro proprio altro: i movimenti e le ideologie del primo mondo.

La prima parte tratta in effetti i fatti del dirottamento di un aereo di linea da parte dell’Armata Rossa Giapponese e l’emozionante rapporto che si instaura tra il capitano delle forze aeree bengalesi e il «numero 20» del commando giapponese. Il secondo si sposta in Germania, dove seguiamo la triste traiettoria di Yoska Ficher, dall’estrema sinistra al governo, dal pacifismo all’intervento armato in Kosovo. Infine, con la terza parte, torniamo in Bangladesh, pronti ad affrontare la figura complessa e irrisolta di un Guevara mancato, un olandese che, nel 1973, fu arrestato per aver partecipato a un tentativo di rivoluzione iniziato da settori avanzati dell’esercito del Bangladesh; e che Naeem va a intervistare oggi, quando oramai è diventato un pacato signore di 66 anni il quale apre al regista le porte di casa propria, ma che si schernisce quando le domande toccano dei punti difficili.

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A più riprese, Naeem confronta le parole del suo interlocutore con quelle di un filmato del 1973. Ne emergono alcune discrepanze, sulla teoria, sulla prassi tra il giovane e l’anziano Peter. Se non avessimo visto le due parti precedenti, potremmo pensare ad un tentativo maldestro, da parte del regista, di mettere il protagonista davanti ad una contraddizione. Se il lungo giro, dentro e fuori dal Bangladesh, si è in effetti imposto è per ripulirci gli occhi e la mente da certi pregiudizi. Il primo ad averne avuto bisogno è Naeem, il quale ha abbandonato presto la questione della coerenza e si è lasciato sedurre da un problema interno alla natura propria del tempo creato dal racconto. L’uomo d’azione è infatti immortalato nel momento in cui non è ormai più tale, quando si è trasformato nel teorico della propria storia.

Ora, la finezza di The Young Man was sta nel fatto che, confrontando il passato e il presente, non cerca di smentire l’ex uomo d’azione (magari alla caccia di complotti immaginari), ma di mostrare come gli ostacoli langagieri, i lapsus e le auto-interpretazioni, lungi dal fornire la prova di un tradimento, sono dei segni che ci permettono di orientarci nel tempo del racconto, di avvicinarci quanto più possibile alla natura effettiva di ciò che l’uomo d’azione è e di quello che ha vissuto. I primi due capitoli sono in questo senso una splendida palestra sia formale che etica che ci servono ad armarci e affrontare l’ultimo. E il progetto del film appare in tutta la sua complessità solo si tiene conto anche del movimento del regista, il quale entra progressivamente dentro il proprio film, diventando lui stesso a sua volta un uomo d’azione da un lato e un teorico della propria storia dall’altro. Ecco che la bellezza di The Young Men Was non sta nel fatto di aver trovato una soluzione alle contraddizioni che incontra ma al contrario di averne fatto il tema del proprio racconto.