Michele Camorani, batterista di band culto dell’hardcore italiano come La Quiete e Raein, da tempo porta avanti un progetto solista interessantissimo, talmente singolare da apparire senza tempo. Havah (dove Camorani è chitarrista e cantante) riprende infatti con devozione gli stilemi del post punk di inizio anni ’80, i synth e i suoni lo-fi, le aperture melodiche di band come gli Smiths su atmosfere cupissime ispirate da Bauhaus, Joy Division o Southern Death Cult. E i suoi testi, rigorosamente in italiano (e che ricordano i Diaframma), curatissimi, ci conducono con enorme forza evocativa in medias res, nel cuore dell’Appennino romagnolo, durante la Seconda Guerra Mondiale. Contravveleno, l’antidoto, è la Resistenza, la lotta contro gli oppressori, da parte di chi vuole semplicemente tornare a essere libero, vivere, sognare.

Le liriche si basano sulla testimonianza di Nullo Mazzesi, un ragazzino diventato partigiano a 12 anni. E in tutto l’album non esiste un filo di retorica, solo l’innocenza, la disperazione e la gioia incosciente di chi è costretto a combattere perché, semplicemente, «non c’era proprio un’altra strada». Il disco è come se fosse un diario intimo dalle montagne in cui ci si deve nascondere, in cui strategie e raccomandazioni si mescolano al pensiero degli affetti rimasti giù, ai problemi quotidiani, alle parole che non si riescono più a pronunciare.

Tra gli ospiti c’è la voce di Francesca Pizzo dei Melampus e Andrea Vasumini alle chitarre, mentre ad accompagnare il musicista forlivese dal vivo ci sono membri di La Quiete, Riviera e Storm. Un album emozionante (fuori per la Maple Death di Jonathan Clancy), l’apice di Havah fino a questo momento, capace di raccontare in modo vivido l’umanità di chi, senza cercarlo, si ritrova in mezzo a una guerra.