«Cosa ti ha spinto a passare dalla fotografia al cinema?», gli chiede Jack Sargeant nell’intervista contenuta nel suo Naked Lens – Beat Cinema (2009). Il cinema? L’autore di The Americans era anche un filmmaker? Certo che lo era. E non solo del famoso Pull My Daisy (1959), quel film realizzato insieme a Alfred Leslie, adattamento dal testo di Jack Kerouac, Beat Generation. Quanto di più moderno il cinema potesse all’epoca immaginare. Kerouac voce narrante, Allen Ginsberg, Peter Orlovsky, Gregory Corso, Larry Rivers e Delphine Seyrig impegnati invece a dare il meglio o il peggio di sé in un film che, a partire da alcuni fatti relativi alla vita di Neal Cassady e di sua moglie, si trasformava in una sorta di partitura free jazz, una prolungata performance simile a una folgorante improvvisazione; «uno spontaneo casino», chioserà Jonas Mekas (Alfred Leslie dichiarerà invece che ogni movimento era stato studiato meticolosamente). Fotografia nitida, scultorea, in un bianco e nero tagliente, indimenticabile.

LA MACCHINA DA PRESA si sposta, studia i corpi e lo spazio (l’appartamento dello stesso Leslie). Vittorio De Seta, dopo aver visto il film dichiarerà lapidario: «È uno dei primi film che ho visto a parlare dell’uomo così com’è oggi, non com’era nel passato. Questo è cinema moderno». Anche Jonas Mekas aveva all’epoca salutato Pull My Daisy come «il ritorno là dove il vero cinema aveva avuto inizio, nel punto in cui si erano fermati i fratelli Lumière».
Zero budget, un gesto artistico, bislacco, dolcemente furioso: tanto che ci domandiamo se un festival d’arte cinematografica accoglierebbe oggi un film simile, dato che già all’epoca le reazioni oscillavano tra il costernato e lo scandaloso: «Avevamo degli attori che venivano e dicevano ’Che tipo di film è?’ Gli abbiamo dato qualche riga, se ne sono andati, offesi dal linguaggio», ricorda Frank nell’intervista di Sargeant. Già, il casting risultava complicato.
Nessuna attrice se la sentiva di partecipare. Una piuttosto famosa aveva apprezzato il testo di Kerouac, ma il suo agente le impedì categoricamente di partecipare. Era piuttosto affermata, ricorda Frank. «Così ho filmato Delphine Seyrig, che a quel tempo… L’avevo fotografata come modella». E continua: «Per le donne era un problema; era un film che trattava della vita di questi uomini».

[object Object]

IL MONDO DEI BEAT era in effetti assai misogino. Solo Barbara Rubin riuscì a tenere testa a quegli artisti macho. Giunta a lavorare da Mekas, stupì tutti, una sera, snocciolando loro in faccia le qualità e gli effetti di qualsiasi droga. Le aveva provate tutte. Va da sé che tutti i presenti deglutirono sgranando gli occhi. Lei fece breccia nel cuore di Allen Ginsberg. Chissà se Robert Frank era presente. Non si considerava propriamente un beatnick.

LE SUE FOTOGRAFIE risultano precise al millimetro. Si può notare il taglio esatto tra ciò che appare e ciò che resta fuori dal quadro. I suoi film risultano spesso insofferenti alla fissità. La macchina da presa si muove, si sposta instabile, irrequieta. Nel cinema non ci sono regole. Non per nulla, uno dei film che Frank trovava prossimo alla sua idea di cinema era Flaming Creatures di Jack Smith. Sia quel che sia, gli amanti del «cinema del reale» troveranno pane per i loro denti davanti a Me and My Brother (1968), presentato nel 1968 al Festival di Venezia. Il film è dedicato al rapporto tra Peter Orlovsky e il fratello Julius. Un film davvero faticoso da realizzare. Un lavoro ricco di intuizioni, che oscilla tra finzione e realtà. Prima di quello aveva realizzato The Sin Of Jesus, tratto da un racconto di Isaac Babel, e OK End Here (1963) dove Frank sembra basarsi su alcune intuizioni di Michelangelo Antonioni.

NEL 1972 LO TROVIAMO insieme ai Rolling Stones, che segue durante il tour di Exile on Main St. Ne esce il censuratissimo Cocksucker Blues, bandito e bloccato dalla stessa band. Nel film sono tutti strafatti. Regna un caos controllato, la macchina da presa non ha limiti, si muove, panoramica, registra tutto. Groupies, sesso, eccessi: la band è filmata sopra al palco, nei momenti di svago, o in viaggio tra una destinazione e l’altra. La musica è stata una grande passione.
Nel 1987 Frank ha realizzato Candy Mountain insieme a Rudy Wurlitzer, il famoso scrittore e sceneggiatore di Two-Lane Blacktop. Nel cast ci sono Dr. John, David Johansen, Joe Strummer, Tom Waits, Arto Lindsay. Si tratta di un vero film commerciale. Con Wurlitzer, Frank aveva realizzato in precedenza altri due piccoli film: Keep Busy (1975) e Energy And How To Get It (1981) in cui appare in una sequenza William Burroughs.
Fra i suoi film che più rapiscono lo sguardo ci sono piccoli lavori quasi diaristici: Conversations in Vermont (1971) e The Present, realizzato in video nel 1996. Sono film (come anche Home Improvements) che riguardano la sua sfera intima, memoriale. Il primo è imperniato sul suo rapporto con i figli Pablo e Andrea (gli Yo la Tengo ne trarranno una canzone magnifica). The Present fa i conti con lutti, perdite (la figlia Andrea), ma mostra una freschezza, un’immediatezza davvero toccante.
Robert Frank filma e parla mentre filma. La sua voce commenta simultaneamente le immagini. Ne esce un lavoro struggente, che include tutti gli aspetti che hanno caratterizzato la sua vita. Ed è con questo che ci piace ricordarlo.