Il primo film del concorso parla giapponese. Di per sè non è una notizia visto che il regista di Our little sister, Hirokazu Kore-Eda è tra i protagonisti della generazione di cineasti cresciuta negli anni Novanta in Giappone. E invece in questa Cannes 2015 «rischia» di diventarlo. La polemica dell’apertura nel «Cannes party» infatti è proprio quella della lingua. La Croisette parla inglese, o meglio «globish» sottolineano i media nazionali, con riferimento ai molti film in concorso che sfoggiano cast internazionali di star, e una lingua che non corrisponde a quella del regista. L’elenco è lungo, e tra questi vi sono ovviamente anche Il racconto dei racconti di Matteo Garrone – oggi in proiezione ufficiale – Youth- La giovinezza di Sorrentino, e poi Lanthimos, Villeneuve, Trier, il messicano Michel Franco. Effetto spettacolare Pierre Lescure, ex direttore generale du Canal Plus che ha preso il posto di Gilles Jacob alla presidenza del Festival? Non credo che l’impronta d’autore sia solo una questione lessicale, quello che piuttosto emerge è la mancanza (o quasi) in gara di un cinema indipendente e fuori dallo star system, e da qualche parte si fa notare che per Frémaux i magri incassi della Palma d’oro dello scorso anno – il film di Ceylant Winter Sleep – sono stati decisivi nelle scelte divistiche.

Torniamo a Kore-Eda, che adatta sullo schermo un manga «familiare», girato nella cittadina balneare di Kamakura, in cui ritrova sentimenti e atmosfere del suo universo poetico – pensiamo al precedente Tale padre, tale figlio. In questo nuovo Our little Sister ci sono tre sorelle, la maggiore ha cresciuto le due più piccole quando la madre le ha abbandonate, appena adolescenti, nella vecchia casa di famiglia, dopo che il padre era andato via con un’altra donna.

Al funerale dell’uomo le tre ragazze conoscono la sorellina, una ragazzina di tredici anni, Suzu, che la maggiore decide di portare con loro riconoscendo in lei la sua stessa dolorosa sofferenza alla sua età, quel sentirsi responsabili per tutto e per tutti che, come le dice l’uomo con cui ha una relazione, le ha tolto il piacere dell’infanzia. Ma la presenza di Suzu cambierà anche i rapporti tra le sorelle portandole dolcemente a riflettere su sè stesse e sulle scelte reciproche.

Siamo in mondo declinato interamente al femminile, le sorelle, la anziana pro zia, la madre delle tre ragazze, la piccola Suzu, che condividono il fantasma paterno, quella figura per le tre fantasmatica, per Suzu concreta intorno alla quale continuano a fluttuare ricordi, rancori, delusioni, rimpianti. La memoria soffusa e delicata dell’infanzia, anche nel dolore, per una delle ragazze è l’odore della nonna, per un’altra i kimoni dell’estate, per Suzu le giornate col padre a pesca, per la sorella maggiore l’ostinazione a mantenere le tradizioni, come il liquore di prugna, e per quella appena più giovane, e molto fashion, lo smalto per le unghie che la madre le ha regalato quando aveva solo sei anni.

Il Diario narra lo scorrere di queste giornate, il rito sospeso del tempo quotidiano in cui nulla sembra accadere, i passaggi dell’esistenza, gli incontri e gli addii, le lente scoperte di sè, la crescita dei desideri, la necessità di lasciarsi alle spalle l’infanzia mondo dell’infanzia … Oltre i bordi delle immagini balena il Giappone in crisi delle piccole imprese oppresse dai debiti e dalle banche, di un’irrequietezza giovane, di sogni lasciati a metà. Non è facile mantenere teso questo filo dell’emozione, e renderlo immagine. Kore-Eda guarda al cinema classico del Sol levante, alle sfumature emozionali impalpabili di Ozu, e non solo per i fiori di pesco, nella delicatezza con cui costruisce la sua messinscena, il movimento delle esistenze tra conflitti, silenzi, ferite anche involontarie, sorrisi, umorismo che disegna questa geometria narrativa: le sorelle e la sorellina, il paesaggio, la memoria e i cambiamenti intimi del presente.Un film «piccolo», senza proclami, che trasforma la vita, e lo scorrere delle stagioni in immagine, luce, tempo del cinema.