«Un nordico meridionale»: mai affermazione fu più calzante per Vittorio De Seta. Ce la regalò lui stesso in occasione della pubblicazione nel 2008 de «Il mondo perduto», i suoi documentari degli Anni Cinquanta. La ritroviamo nel libro di Franco Blandi (Vittorio De Seta. Il poeta della verità», Navarra Editore, pagine 308, con allegato il dvd del film documentario «Dètour De Seta» di Salvo Cuccia, euro 20) come guida all’universo di un autore che non si finirà mai di studiare e scoprire. Blandi ci tiene a sottolineare che il volume nasce dallo spunto di un incontro formidabile, avvenuto proprio nel 2008, tra Vittorio De Seta e Vincenzo Consolo, due siciliani del tutto atipici. E nella vita e nell’excursus di un autore originale il libro ci consegna un nuovo tassello ricco di spunti sull’autore di «Banditi a Orgosolo» e «Diario di un maestro». Immerso nella vita borghese fin dalla nascita, il giovane De Seta farà il salto di qualità con l’esperienza della guerra e della prigionia. Lì conosce un mondo di cui ignorava l’esistenza: quello dei poveri e dei lavoratori del Sud. L’impatto fu traumatico e fu la svolta della sua vita. Una svolta che cercherà, con grande intelligenza e senza schematismi ideologici, di riversare nel cinema quando sceglierà questa espressione artistica negli Anni Cinquanta (iniziò come aiuto regista e co-sceneggiatore per «Vacanze d’amore» di Jean-Paul Le Chanois, un cinema che odiava e da cui si sarebbe subito distaccato).
Poi c’è l’avventura iniziale come autore dei corti degli Anni Cinquanta: dieci tappe decisive che consegnano De Seta alla storia del documentario italiano. Il libro è diviso in tre parti: nelle prime due l’analisi delle opere del regista, nella terza la filosofia che sottende al suo modo di fare arte. De Seta, dopo un intervallo depressivo che lo porterà in cura junghiana, affronta in modo sublime e intrigante (un’altra forma del suo anticonformismo artistico) i tre lungometraggi degli anni Sessanta: «Banditi a Orgosolo», «Un uomo a metà», «L’invitata», per poi passare nei Settanta a un uso straordinariamente vitale dell’odiata televisione: «Diario di un maestro», «Quando la scuola cambia», «La Sicilia rivisitata», «Hong Kong città di profughi».
E gli anni seguenti non sono da meno con la sua scelta artistica orgogliosamente ma umilmente solitaria che ci ha dato, oltre al notevole documentario sul carnevale veneziano, sull’incredibile paese di Pentedattilo e su di un appassionato cultore del passato come Antonino Uccello, la dissertazione sulla «sua» Calabria, lo sguardo straordinario sull’immigrazione con «Lettere dal Sahara» da rivedere soprattutto ora.
Un autore, Vittorio De Seta, moderno come pochi. Si rileggano, nel libro, numerosissimi suoi interventi, come questo: «Quando si dice del documentario, si allude a qualcosa di oggettivo, di incontrovertibile, quasi di ovvio se non di banale, contrapposto alla finzione che rappresenterebbe la fantasia, l’invenzione. Se vai a vedere, non è vero, sono equivoci, malintesi. Quindi esisterebbe il cinema di finzione, di fantasia sfrenata che poi così spesso non è. E poi esisterebbe questo genere del documentario che non farebbe altro che registrare i fatti così come sono… per carità! Io dico che il cinema sia che sia di finzione o documentario, deve sempre raccontare una storia».
Un libro che riporta De Seta al centro del dibattito autentico sull’Europa, sulle sue rimozioni delle culture del passato. Che il film documentario «Detour De Seta», allegato al libro, rende in modo appropriato.