E’ incredibile quanto la storia del cinema italiano del novecento sia piena di cose ancora tutte da scoprire, progetti non finiti, carteggi, diari, notizie di frequentazioni e di incroci spesso insospettabili ai più. Segni ulteriori della grandissima vitalità di un cinema, il nostro, che dal ’43 alla fine degli anni settanta ha saputo mostrare grandissimi risultati ma anche arditissime sperimentazioni. Rimetterci il naso dentro oggi sarebbe più che opportuno anche per ridestarci dall’inedia che sembra aver colpito in modo inesorabili produttori, sceneggiatori ecc., tutti volteggianti attorno ai tre o quattro plot con i quali si pensa e si spera di poter avere risultati sicuri al botteghino, ignorando quanto è smaliziato il pubblico di oggi.

Ottima occasione per trovare nuovi stimoli e lasciar perdere papi, madonne e psicologi in crisi la si può trovare nell’appassionante lettura del libro di Francesco Rosi I 199 giorni del Che. Diario di un film sulle tracce del rivoluzionario (Rizzoli, pp. 247, € 19).

Curato da Maria Procino con l’ausilio di Carolina Rosi, questo volume ripercorre il lavoro del regista napoletano per portare sullo schermo la vita del rivoluzionario argentino.

Un libro che ne contiene molti dentro di sé, svolgendo le funzioni al contempo del diario di lavorazione, della preziosa raccolta di testimonianze storiche di prima mano, di officina creativa.

Se ne ricava una testimonianza importante sulla vitalità della pratica dell’inchiesta cinematografica, con la quale Rosi aveva già all’epoca (’67) ottenuto risultati molto importanti con due capolavori del calibro di Salvatore Giuliano e Le Mani sulla città.

L’idea è sempre quella di partire dalla verità, dai fatti, non per subirli, “ma per parteciparvi, come se fosse chiamato a prendere coscienza di quello che accade sullo schermo, quasi a sentirsi attore egli stesso di quegli avvenimenti che formano la storia di un momento della vita di un Paese, ma che è un momento stesso della vita dell’umanità.”

Tutto inizia alla fine di ottobre del ’67. Sono passati poco più di venti giorni dalla notizia della morte di Ernesto Che Guevara, quando Francesco Rosi decide di partire per il Sudamerica per cercare di trarne un film.

Arriva a Cuba, dove la figura del Che sta già per essere trasfigurata in qualcosa d’altro. Incontra Feltrinelli, Valerio Riva, Pajetta. Alla fine riesce anche a parlare con Fidel, di cui fa un veloce ma spassoso ritratto di Fellini in uniforme. Il via libera al film c’è.

Due mesi dopo Rosi inizia il suo viaggio-inchiesta per capire con i propri occhi cosa è successo al rivoluzionario più famoso del mondo.

Parte per Lima, “livello umano e condizione sociale tipo grossa città del Sud Italia”, poi in Bolivia, dove cerca di capire come davvero è avvenuta la morte di Guevara. Nel frattempo sulla stampa di tutto il mondo si accavallano versioni contrastanti, sulla morte, sul ruolo di Regis Debray, sul perché il rivoluzionario argentino sia stato completamente abbandonato sia dalla popolazione che dai rappresentanti politici dei partiti comunisti.

Poi ci sono gli Stati Uniti, la Cia, tutte cose su cui si discuterà per molto tempo.

La permanenza in Bolivia dura due mesi, al termine dei quali Rosi si convince che raccontare la storia di Guevara significa raccontare buona parte dei tentativi di emancipazione compiuti dai popoli del terzo e quarto mondo nel secondo dopoguerra.

Nel febbraio ’68 èdi nuovo a Cuba, dove cerca di portare avanti il suo progetto convincendo il regime castrista da un lato e i familiari del Che dall’altro.

Presto Rosi si accorge che in ballo c’è qualcosa di molto grosso, di imponente: l’eredità di uno dei più importanti rivoluzionari del secolo.

Lui vorrebbe farne “un film sulla situazione in America Latina in rapporto a Che Guevara”, i castristi (divenuti presto una sorta di controparte in pectore, più che dei partner) vorrebbero per tutta una serie di ragioni politiche e ideologiche che l’intero film fosse fatto a Cuba. Due linee inconciliabili, il film non si farà mai. Ne rimangono un soggetto e un trattamento, dove più volte risuona la frase “Due, tre, molti Vietnam…”.

E Dove finiranno e il Granma e i colloqui tra Kennedy e Dulles sulla baia dei porci, il Guatemala e ovviamente la Bolivia.

Per Rosi la parabola rivoluzionaria di Guevara riguarda non solo i luoghi dove fisicamente è stato ma anche quelli in cui la sua voce è risuonata e continuerà a risuonare, a dispetto dei suoi carnefici.

Come un fantasma, uno spettro, un incubo, dipende dai punti di vista.