Venezia, 2 marzo 2018. La letteratura è una “finestra per entrare in altri luoghi” per la fotografa e filmmaker Diana Lui (Petaling Jaya, Malesia 1968, vive e lavora a Parigi) che alla I edizione di Venezia PHOTO ha tenuto la sua masterclass partendo proprio dalle suggestioni poetiche di Brodsky, a cui si aggiungeranno presto quelle di Calvino (Le città invisibili). Che si tratti della semioscurità dell’antica farmacia di San Servolo, della stanza n. 8 dove si sono svolte le lezioni teoriche o delle calli veneziane, l’obiettivo – anche quando usa il banco ottico – è sempre puntato oltre l’apparenza. “E’ un po’ come una ricerca di un paradiso personale.” – spiega Lui (le sue opere fanno parte di numerose collezioni, tra cui Bibliothèque nationale de France, Guangdong Museum of Art, Musée de la Photographie de Charleroi) – “Venezia, per me, è il frutto dell’immaginazione di una città fluttuante sul mare. E’ come un sogno che può sparire da un momento all’altro. I veneziani lo sanno bene, ecco perché difendono l’idea di preservare questo sogno. Anche come artista è un’ottima metafora, perché esprime l’idea di salvaguardia di quello spazio che è la libertà d’immaginazione, senza la quale la realtà non sarebbe possibile.”

Il titolo della tua masterclass a Venezia PHOTO, Acqua Alta, una ricerca poetica visiva per il paradiso è anche una metafora del tuo percorso personale e professionale?

Sì, assolutamente. L’ispirazione è nata da Acqua Alta, un lungo poema del poeta russo Joseph Brodsky. Per me l’idea di base è che Venezia sia un’illusione, perché è costruita a partire dalla consapevolezza e inconsapevolezza collettiva. Fa parte della storia dell’umanità che si possa prendere quest’immaginario dentro di noi per costruire la nostra esistenza. L’immaginario, del resto, rende possibile la vita. Senza questo aspetto, per me, c’è la morta.

Di questa città così fotografata, di cui anche per questo non è facile cogliere l’essenza più autentica, qual è l’aspetto che ti ha colpito e stai cercando di trasmettere ai tuoi allievi?

Come prima cosa quello che chiedo ai partecipanti è di non fare foto-cartoline, ma di scattare le immagini che Venezia fa nascere in noi, mettendo in contatto le nostre emozioni e facendoci parlare della nostra interiorità. Sono immagini che, in realtà, non hanno nulla a che vedere con la città. Come fotografa per me è particolarmente difficile Venezia, perché è così difesa dai veneziani da non permetterne l’accesso. Si possono fotografare tutti gli angoli, così immediatamente riconoscibili, ma la bellezza di Venezia dipende solo dall’ispirazione che suscita interiormente.

L’aspetto fluttuante è legato anche alle tue vicende personali con il passaggio da un luogo ad un altro – dalla Malesia agli Stati Uniti e poi all’Europa – che ha messo in discussione la tua identità?

Sì, c’è una piccola isola immaginaria che porto sempre con me. E’ un bisogno primordiale di salvaguardia. Se non ci fosse sarei perduta. Credo che tutti gli artisti abbiano una piccola isola dentro di sé.

Come sei riuscita a tenere a bada il dolore del distacco?

Avevo 14 anni quando sono andata via dalla Malesia per andare a studiare negli Stati Uniti, subendo uno sradicamento. Lì sono rimasta dieci anni, poi ho vissuto in Belgio per altri cinque ed ora sono a Parigi. Se non avessi quello spazio interno di cui parlavamo prima, sarei schizofrenica e perduta, come un elettrone che si aggira senza meta nello spazio. Il dolore e la sofferenza sono cominciati nel momento in cui le radici sono state tagliate. I miei genitori decisero di mandarci fuori a studiare: mia sorella vive attualmente in Olanda, mentre mio fratello dopo esser stato negli Stati Uniti è tornato in Malesia per stare vicino ai nostri genitori. In Malesia era molto difficile per i non malesi – io sono di origine cinese – avere una buona educazione. La Malesia è un paese giovane dove i principali gruppi etnici sono malesi, cinesi e indiani. I cinesi, come gli ebrei, sono dei grandi lavoratori e hanno cominciato ad avere un grande potere economico, così i malesi temendo questa crescita decisero di dare più forza ai malesi riservando loro i posti all’università. A quei tempi, parliamo dell’inizio degli anni ’80, per i cinesi era difficile, se non impossibile, avere accesso all’università, così all’improvviso fummo spediti in Inghilterra o in America. Mio padre era un politico e avendo avuto lui stesso problemi, decise di farci andare via. In America i ragazzini erano particolarmente stupidi e razzisti. E’ un età in cui se sei diverso da loro ti prendono in giro. Per me ha significato uscire fuori dal mio piccolo bozzolo. Fu un vero shock perché nella mia scuola ero molto popolare, essendo anche una brava studentessa. In Malesia andava per il meglio, avevo anche molti amici. A Los Angeles mi ritrovai da sola. Una quattordicenne alle prese con altri ragazzini che la chiamavano “nip”, un modo dispregiativo per indicare i giapponesi, come le persone di colore venivano chiamate negri. Ero cinese, ma loro mi chiamavano “nip”. I primi tre anni furono particolarmente duri, però quando si è giovani è più facile adattarsi. Dopo, quando frequentavo gli studi di arte all’UCLA (University California Los Angeles) diventai molto popolare a scuola e fui felice di essere in America, ma all’improvviso cominciai a chiedermi chi fossi veramente. Sono americana? Sono veramente malese? Senza poter dare una risposta a queste domande. Per questo l’identità è diventato il soggetto centrale del mio lavoro, soprattutto al giorno d’oggi in cui i problemi legati all’immigrazione e all’economia sono ovunque. Come artista ho bisogno di preservare una sorta di radici fluttuanti. Una cosa che posso fare solo da me, perché i miei genitori che sono nati in Malesia e continuato a vivere lì, non saprebbero come potermi aiutare. Dagli Stati Uniti mi sono trasferita in Belgio, anche se non ho mai amato quel paese perché piove troppo e non c’è il sole. Poi mi sono spostata a Parigi che mi piace e dove vivo ormai da vent’anni. Ma le domande sull’identità ci sono sempre. Sono malese, cinese di seconda-terza generazione, ma anche belga, visto che ho anche questa nazionalità e presto avrò quella francese?

Qual è, in particolare, il bagaglio della tua origine malese-cinese che ti porti dietro?

Mi piace il cibo e il clima tropicale che ben si confà a me e mi piace tornare in Malesia in visita, ma non credo che potrei mai più vivere lì. C’è qualcosa che è cambiato dentro di me. So cosa vuol dire la libertà e non potrei rinunciarci. La mia casa è il pianeta terra.

Un altro aspetto che indaghi è il femminile, soprattutto in Marocco, Tunisia e Malesia…

Recentemente ho lavorato anche sulle donne di Tolosa, nel sud della Francia, chiedendo loro di indossare gli abiti tradizionali. Le donne del Marocco, però, sono molto più a loro agio con gli indumenti tradizionali di tutte le altre. Sono abiti che possono essere molto pesanti, anche perché portano con sé il loro patrimonio. In passato la donna era un po’ come un pezzo importante dell’arredo e credo che sia ancora così in alcune parti del Marocco, soprattutto nei villaggi. Nelle città è diverso, anche se in una città come Marrakech per il matrimonio si indossano ancora sette abiti, uno diverso per ogni giorno. E’ molto bello, ma anche molto costoso perché sono abiti particolarmente preziosi e non tutti possono permettersi di possederli, così li prendono in affitto. Mi interessa molto l’aspetto sociale di come la tradizione venga vissuta al giorno d’oggi. Abiti che si realizzano più, ma che le famiglie più abbienti conservano da generazioni. In città è di moda indossare gli abiti tradizionali, ma per la gente dei villaggi è una questione molto importante e il matrimonio richiede risparmi di anni da parte della famiglia, anche per via della dote. In Tunisia, dove le donne sono molto più indipendenti, la situazione è diversa. E’ come se, a partire dagli anni ’50, ci fosse stata un’amnesia generale. Si è persa la memoria di questi abiti bellissimi che ho potuto fotografare prendendoli in prestito da collezioni private. Molte donne tunisine non ne conoscevano l’esistenza. Erano stupite, e non sapevano come indossarli.

Come per Venezia, in cui Brodsky è stato una sorta di passepartout, così per Le Voile Essentiel ti sei ispirata al lavoro fotografico dello psichiatra francese Gaëtan Gatian de Clérambault ossessionato dalle donne velate del Marocco…

Clérambault è un personaggio molto interessante, anche se era un po’ pazzo con la sua ossessione per le donne velate. Ha scattato migliaia di fotografie bellissime creando una sorta di sistema alfabetico intorno al velo. All’epoca era diffusa la corrente dell’orientalismo di stampo colonialista, ma credo che Clérambault fosse interessato più alla forma del tessuto intorno al corpo delle donne. In Marocco c’è chi non ama il suo lavoro, ma io trovo che, in fondo, abbia tentato di difendere un linguaggio!