Si riparte domani: dopo tre giorni di discussioni serrate su come mettere fine alla guerra in Afghanistan, Talebani e americani si prendono una pausa. Serve soprattutto ai Talebani per sondare gli umori interni al movimento, agli americani per capire cosa possono ottenere e cosa no dai militanti barbuti.

I negoziati in corso a Doha danno seguito ai colloqui di fine gennaio, quando si è trovato un accordo di massima sul ritiro delle truppe straniere dal Paese in cambio della garanzia dei Talebani di rompere ogni legame con i gruppi jihadisti dalla vocazione globale.

Ora si tratta di capire tempi e modi del ritiro delle truppe. E di fare qualche passo ulteriore verso la definizione dell’Afghanistan post-occupazione. La posta in gioco è alta. A discuterne sono pezzi da novanta.

Dalla parte degli Usa c’è Zalmay Khalilzad, l’inviato a cui Trump ha dato pieni poteri; dalla parte dei Talebani c’è il mullah Abdul Ghani Baradar, uomo della vecchia guardia, in carcere per molti anni, oggi numero due dei Talebani e capo delle delegazione politica. Che Baradar abbia incontrato per la prima volta non solo Khalilzad, ma anche il generale Scott Miller, comandante delle forze statunitensi e della Nato in Afghanistan, segnala bene l’importanza di questi incontri.

Miller deve trasformare in atti concreti, pragmatici e non umilianti per gli Usa la posizione di Trump, che a febbraio nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione ha detto: «Le grandi nazioni non combattono guerre senza fine».

Mettere fine alla guerra, però, non è semplice. Servono piccoli passi, ma significativi. Oltre a un accordo concreto sui tempi e le modalità del ritiro delle truppe straniere, le delegazioni lavorano a un eventuale cessate il fuoco.

L’altra opzione è che i Talebani evitino di annunciare, come fanno ogni anno, la campagna militare di primavera. In entrambi i casi sarebbe un risultato simbolico importante. E le delegazioni presenti a Doha e ospiti del governo qatarino potrebbe uscire dai colloqui soddisfatti.

Se a Doha qualcuno sorride, Kabul continua a piangere. Ci sono almeno quattro motivi che non inducono a vedere la fine di un lungo inverno con una sola schiarita. Il primo è che dal tavolo negoziale di Doha il governo – e con lui gli afghani che lo hanno votato – restano esclusi in un limbo che alimenta tensioni interne, critiche, il rafforzamento delle fazioni.

Il secondo riguarda il tentativo del governo di cercare una legittimazione attraverso la Loya Jirga, l’antico sistema di autogoverno dell’Afghanistan. Ma ormai – spogliata dei suoi antichi privilegi – la Jirga è solo consultiva ed è diventata il facile bersaglio di chi, non senza ragione, la legge come un ennesimo tentativo del governo di Ghani e Abdullah per rafforzare le loro sempre più deboli posizioni. Anche Karzai, predecessore di Ghani, l’ha usata più volte con un evidente fine manipolatorio.

Il terzo e il quarto punto riguardano la vita degli afghani: che continuano a morire e la cui richiesta di pace – una pace che tenga conto anche delle voci dal basso e soprattutto delle donne, che ieri si sono riunite a Kabul – resta inascoltata. Da governo, Talebani, forze internazionali.

Alcuni giorni fa la missione Onu di Kabul (Unama) ha reso noto l’annuale bilancio delle vittime civili: sono aumentate dell’11% rispetto al 2017. È il bilancio più alto da quando Unama tiene il conto: 10.993 vittime (3.804 morti e 7.189 feriti), attribuite per il 63% agli anti-governativi (il 37% ai Talebani, il 20% allo Stato islamico nel Khorosan, che registra una crescita preoccupante), il 6% ad attori indeterminati. Le forze filogovernative avrebbero causato il 24% delle vittime (14% forze di sicurezza nazionali, 6% forze internazionali, 4% milizie).

I Talebani hanno contestato le cifre e ne hanno per la prima volta fornite altre relative a febbraio di cui hanno dato conto in una lettera inviata a Onu, Tribunale penale internazionale, Human Rights Watch e Organizzazione della conferenza islamica, accusata di un silenzio colpevole.

In tutto ciò continua a muoversi il segnale della mobilitazione pacifista popolare iniziata nel marzo dello scorso anno. L’ultima manifestazione è di metà febbraio a Kunar, al confine con il Pakistan. Chiede la fine del «genocidio degli afghani».