Può apparire come un singolare paradosso la circostanza per la quale la ‘fortuna’ di Ovidio − come viene definito quell’insieme di elementi costituiti dalla diffusione della sua opera, gli studi che ha suscitato, gli influssi su altri poeti – sia oggi legata a un evento che Ovidio stesso non esita a definire frutto della sua miserrima fortuna (Tristezze III, 11): l’esilio e la condizione dell’esule.
Tra i temi che costituiscono la cifra più ‘attuale’ e immediatamente riconoscibile dell’opera ovidiana – la concezione dell’amore, la metamorfosi, l’esilio – mi sembra infatti soprattutto quest’ultimo oggi al centro dell’attenzione: ciò avviene non solo quest’anno, in concomitanza con la celebrazione del bimillenario della morte, con un naturale e immediato riferimento alla condizione in cui Ovidio morì, ma già da qualche tempo in diversi contesti è apparsa una nuova e fertile lettura del poeta latino come drammatico cantore dell’esule e della sua pena.
L’attenzione che viene accesa su un classico si manifesta lungo linee distinte, tra loro correlate: la critica, l’editoria e la pubblicistica, il mondo della scuola, e infine gli artisti e gli altri poeti: sono soprattutto questi ultimi che oggi leggono nella vicenda biografica di Ovidio, e nell’ultima parte della sua produzione poetica, la rappresentazione di una condizione umana sradicata, ferita, offesa, nella quale si riconoscono e che vogliono a loro volta esprimere. Essi assumono Ovidio non come ‘modello’, ma come destinatario del loro fare poetico, intrattenendo con lui un dialogo che attraversa, indenne, il tempo, le contingenze storiche, gli schemi mentali, espressi in lingue e culture diverse. Si delinea in questi termini un’idea e una pratica della ricezione ovidiana come ‘conversazione’, un contatto tra universi artistici lontani, che non si limita al giudizio critico ma è piuttosto un segno di intesa, di comprensione reciproca e profonda.
Uno degli autori contemporanei che più di ogni altro si è rivolto a Ovidio è Derek Walcott, il poeta caraibico recentemente scomparso, premiato con il Nobel nel ’92, che illumina bene la dimensione postcoloniale come ibridazione tra l’Occidente, rappresentato per lui dal latino e dall’inglese, e le terre di conquista, in questo caso l’isola di Santa Lucia nei Caraibi – il luogo di nascita di Walcott –, la cui lingua è il creolo. Walcott dichiara di scrivere per i poeti morti, e in alcune sue raccolte di versi (Hotel Normandie Pool del 1981 e Midsummer del 1984) dialoga con il fantasma di Ovidio, chiedendosi, e chiedendogli, se è corretto usare l’inglese per un poeta caraibico, se scrivere in inglese non significa forse di per sé militare nei ranghi della Regina: «No language is neutral». Il rapporto tra la lingua acquisita (l’inglese) e la propria (il creolo) appare rovesciato rispetto al bilinguismo lamentato da Ovidio, che più volte dichiara nelle opere dell’esilio di avere dimenticato il latino, a mano a mano che cominciava a usare la lingua dei Geti e dei Sarmati: quella perduta è per Ovidio la lingua dell’Impero e della tradizione letteraria alta, a vantaggio di una lingua definita barbara e ferina; ma il movimento che permette a Walcott di avvicinare la sua vicenda a quella ovidiana va oltre un processo di semplice ripresa, o di rovesciamento, di situazioni e temi, per toccare invece un punto nevralgico della condizione dell’esule, o dell’emarginato: la perdita, l’esilio dalla propria lingua prima ancora che dalla terra di origine. In questi termini, il riferimento a Ovidio non è per Walcott semplicemente un gioco di allusioni o di rispecchiamento, ma è piuttosto l’instaurazione di un rapporto personale, che porta allo scoperto un’istanza nuova, nascosta nelle pieghe del testo antico, un’istanza che coinvolge in profondità la poetica dell’autore moderno.
Un altro poeta che trova ispirazione nell’Ovidio esule è Josif Brodskij, anch’egli insignito del premio Nobel, nel 1987. Condannato nel ’64 al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo (cinque anni di lavori forzati nel distretto di Konoš), Brodskij si identifica con l’Ovidio dell’esilio («as if Ovid is alive”) e, definendosi abitante della «Scizia settentrionale», più di una volta scrive di ritenere Ovidio, «sbattuto fuori da Roma dall’amato Augusto di Orazio», il più grande tra i poeti latini. Ovidio è peraltro molto presente sia nella poesia di Anna Achmatova, sia in quella di Osip Mandel’štam, che addirittura ha ripreso per una sua raccolta il titolo dei Tristia («Io so la scienza dei commiati, appresa / fra lamenti notturni e chiome sciolte»). In un’opera intitolata Otryvok (Frammento), datata 1964-’65 e scritta a Norenskaja durante il confino, Brodskij propone un confronto tra la sua situazione personale e quella di Ovidio: ambedue sono soggetti a un provvedimento che li condanna all’isolamento forzato; ambedue non sono esiliati nel senso stretto del termine. I primi quattro versi della prima ottava ci presentano il poeta che parla di Ovidio in terza persona, usando il cognomen: «Nasone non è pronto a morire. / Perciò è cupo. / Il gelo della Sarmazia / gli confonde la mente». Davvero Ovidio si rifiutò di morire: nella X elegia del IV libro dei Tristia, egli rivendica alla poesia la forza che lo tiene in vita, che lo spinge a ostinarsi contro i duri disagi ai quali è stato condannato. Sulla stessa linea, Brodskij ricorda i freddi della Sarmazia – la denominazione che i Romani davano alla regione a est della Vistola e che comprende parte delle odierne Polonia e Russia sud-occidentale; osserva la tristezza di Nasone e chiude la prima ottava con quattro versi che non è chiaro se appartengano al discorso mentale di Ovidio stesso oppure se siano ancora parole del poeta che lo osserva: «Più vicina di Roma sei tu, o stella. / Più vicina di Roma è la morte. / Il vantaggio è che a lei / si può guardare». Nella sua Nobel Lecture il poeta russo disse che se l’arte insegna qualcosa (all’artista, in primo luogo), questa è l’interiorità della condizione umana. Essendo la più antica e la più letterale forma di un gesto personale, l’arte promuove in un uomo – che ne sia o meno consapevole – il senso della sua unicità, individualità, separatezza, così trasformandolo da animale sociale in autonomo «io». Il poeta così proseguiva: «Molte cose possono essere condivise: un letto, un pezzo di pane, convinzioni, un’amante … ma non una poesia, ad esempio, di Rainer Maria Rilke. Un’opera d’arte, di letteratura soprattutto, e una poesia in particolare, intrattiene con un uomo un rapporto tête-à-tête, entrando con lui in una relazione diretta, libera da ogni mediazione».
Proprio questo rapporto ‘personale’, libero da mediazioni, costituisce l’aspetto a mio parere più interessante della ricezione moderna della poesia antica: la cultura classica ha raggiunto un profilo elevato nella poesia contemporanea, mentre il numero di lettori che oggi è in grado di leggere in originale le opere greche e latine è drasticamente diminuito. Se da un lato le discipline classiche sono state spinte ai margini della moderna vita intellettuale, dall’altro la classicità ha guadagnato un’attenzione diffusa e profonda, grazie alla maggiore accessibilità di testi e opere attraverso le traduzioni. I più grandi poeti contemporanei legati alla tradizione del classico provengono, in grandissima parte, da zone periferiche del mondo culturale, nelle quali il latino ha da tempo perso la centralità sul piano della formazione, e il canone degli autori da leggere non ha più al suo vertice i poeti classici: ma proprio la «sconsacrazione» di grandi opere poetiche, nel senso della fine della loro centralità culturale come testi canonici e immutabili, in genere conosciuti e letti nelle loro lingue originali, permette ai poeti moderni di creare nuove opere ‘classiche’ usando materiali classici e soprattutto attivando un processo di identificazione personale con i greci e i latini, perché trovano in loro temi politici e sociali che sentono coerenti e vicini a quelli emergenti nei loro paesi d’origine. Si volgono alla tradizione classica, quindi, non in spirito di omaggio, ma con un atteggiamento di serena, limpida appropriazione.
In sede teorica, sta emergendo, soprattutto in ambito anglosassone, un filone di ricerca che viene identificato con il nome di career criticism, il cui oggetto è l’autorappresentazione che poeti e scrittori dell’antichità hanno dato di se stessi, presentando la loro opera come un insieme organico e completo: in questa operazione essi hanno spesso ripreso e ricalcato situazioni esterne, eventi, circostanze della vita di altri autori presi a modello, in un procedimento di aemulatio destinato a immensa fortuna nel mondo antico. Emerge in queste analisi il tentativo di rileggere la dimensione esistenziale del poeta antico, cogliendo nelle sue parole l’immagine e la rappresentazione di se stesso consapevolmente orientata e costruita. Uno dei più analizzati nell’ambito del career criticism è proprio Ovidio, che presenta se stesso come novello Ulisse, dando uno spessore letterario alla personale, bruciante esperienza dell’esilio. Ulisse è il narratore di se stesso: è dal suo stesso racconto nei libri IX-XII che l’Odissea prende forma, e le avventure che egli narra sono le tappe non solo di un viaggio, ma anche di un percorso attraverso il ricordo. La stessa circostanza si produce nel racconto ovidiano: ma in questo caso poeta e personaggio si fondono l’uno nell’altro; non c’è più la distanza epica tra il poeta e il racconto, c’è una sola, drammatica, identità, e la voce che si leva dalla poesia è al contempo quella dell’autore e del protagonista al centro di una vicenda sconvolgente.
A differenza di Cicerone, Ovidio non dà una risposta politica al suo esilio, e, a differenza di Seneca, non ne dà una filosofica. Forse questa è una delle ragioni che fanno di Ovidio un poeta e un personaggio moderno, in cui tutti gli esuli, di qualunque condizione, si possono riconoscere.