Una nuvola di riccioli bianchi vaporosi e svolazzanti, due occhi che mutano dal verde al viola da gatta-civetta, la figura longilinea, sempre elegante, Mara la si riconosce da lontano, è inconfondibile, e quando c’è lei, c’è sempre qualcosa di interessante da vedere, da ascoltare, da mangiare, insomma, questa signora ha il dono di trasmettere gioia di vivere. «Solo chi è nato prima della rivoluzione sa cos’è la gioia di vivere…sai così si dice…qui da noi è finito tutto col terrorismo, con l’eroina…», mi ha detto l’altro giorno. E poi: «. Mara, caparbiamente, non l’ha mai voluto perdere questo sentimento di armonia e gratitudine. Mara Chiaretti si è sempre occupata di arte contemporanea, scrivendone, dirigendo dal 1967 al 1972 la Galleria d’arte moderna e contemporanea Iolas-Galatea a Roma, e, poi, aprendo il suo Studio Mara Chiaretti dal 1972 al 1989 dove passò tutta la generazione dell’Arte Povera e dove nacquero le intense amicizie con Clerici, Boetti, Schifano, Festa, Angeli e tanti altri. La dolcezza del vivere prima della rivoluzione, per Mara, si schiantò con la morte di Barbara, ma riuscì a ritrovarla, poiché l’istinto non si uccide, con incursioni in altri linguaggi: il teatro per primo, collaborando come assistente alla regia di Federico Tiezzi nella compagnia «I magazzini» per la messa in scena di Porcile di Pier Paolo Pasolini con Marisa Fabbri nel 1992. Poi, altra sfida, altro strumento: nel 1997 dirige il documentario Swing Heil, la storia del jazzista berlinese ebreo Coco Schumann, racconto lucido e implacabile di come la musica gli salvò la vita a Auschwitz Birkenau. «Tutti erano contenti di sentire la musica… ci facevano suonare quando le SS controllavano i tatuaggi sulle braccine dei bambini, e quando le camere a gas lavoravano a pieno ritmo dovevamo eseguire la Paloma per accompagnare i condannati a morte e l’odore di carne bruciata trascinava dritti dentro l’inferno dantesco,…ci hanno mandati al lager. I miei film raccontano storie di persone che hanno attraversato grandi tragedie, ma non hanno perso la speranza e la gioia di vivere… anche Barbara, mia figlia, sarebbe una donna piena di amore per la vita se avesse avuto più tempo».

[do action=”citazione”]I miei film raccontano storie di persone che hanno attraversato grandi tragedie, ma non hanno perso la speranza e la gioia di vivere… /do]

E dove prima c’erano le famiglie zingare, li avevano gasati tutti, erano 30mila, anche le donne e i bambini, per farci posto a noi ebrei misti, ma non avevano più un’orchestra, in fumo anche quella…c’era uno stanzone pieno di strumenti, anche molto preziosi, io non avevo mai suonato con una chitarra così bella … così entrai nei Ghetto swingers, nel 1943 quando arrivai al campo loro erano già lì, i musicisti cambiavano in continuazione…». In questo primo documentario, alla musica e al racconto di Schumann, intervistato a Berlino nel 1997, si sovrappongono, o meglio, compenetrano ritmicamente immagini di repertorio belle e rare, questo modo di giocare con le analogie e gli scarti di senso è tipico del lavoro di Mara che per Swing Heil! ha ricevuto il Premio Sacher d’argento nel 1998 al Sacher festival di Roma.

Nel 1999 dirige Em Shakulà, che in ebraico significa «madre orbata» o «madre senza» ritratto di Manuela Dviri coraggiosa madre, italiana sposata a un israeliano, di un ragazzo morto ventenne durante la guerra del Libano del 1998, che scrisse a Netanyahu per chiedergli a ricompensa del suo lutto l’unico risarcimento possibile per una madre: «la pace…. che va cercata con il coraggio di soluzioni creative e diverse dalla guerra» per un paese che è «molto giovane e molto stanco, stanco di essere costruito sul sangue» perché una madre che piange è il contrario della creatività e finché le donne resteranno a casa a piangere i soldati morti al fronte la pace non sarà possibile. Anche in questo filmato si mescolano i piani: Mara segue Manuela nella vita quotidiana, al mercato, a casa, al cimitero, mentre lavora, e le sue parole s’intercalano con le immagini e il suono del concerto di Isaac Stern durante la prima guerra del golfo, che fu interrotto dalle sirene ma nessuno abbandonò la sala.

Stern ricominciò a suonare, dopo una breve pausa, il suo violino sublime per un pubblico che indossava le maschere anti gas; o altre, strazianti, di attentati sugli autobus o nel brulicare cittadino, e le preghiere al muro del pianto uomini da una parte e donne dall’altra, rigorosamente separati, tanti piccoli biglietti arrotolati e infilati nelle fessure del muro, e riprese di scherzi tra ragazzi in divisa e torte in faccia…E sempre torna su questa donna coraggiosa che invece di cedere alla tentazione di chiudersi nel dolore e nel silenzio ha scelto di combattere, di battersi con l’impegno politico, per quel figlio sacrificato e per tutti gli altri figli di una guerra insensata. Anche questo film è stato segnalato dalla Menzione speciale della Giuria al Festival Arcipelago di Roma nel 2000.

Nel 2001 Nanni Moretti e Angelo Barbagallo le producono Davai bistrè! Avanti presto per la serie I diari della Sacher che viene presentato al festival di Venezia, un’altra storia estrema, quella di Francesco Stefanile, prigioniero di guerra in Siberia, che la scrisse notte dopo notte nel casello dell’autostrada dove aveva trovato lavoro dopo il ritorno in Italia: «La scrissi per rabbia perché di noi reduci della Siberia se ne parlava solo in periodo di elezioni e poi niente cchiù… Ero partito volontario per la Russia perché non volevo andare in Africa sulle navi, che non sapevo nuotare… io sono nato alle pendici del Vesuvio, a Casamarciano, in quella che i romani chiamavano Campania felix… Mio padre aveva un amico con un cane, erano socialisti e siccome non potevano pronunciare il nome di Matteotti che era proibito ci chiamarono il cane Matteotti, ma poi arrivarono i fascisti e gli fecero una multa a tutti e due 10 lire e 10 centesimi….Quando viene la primavera? domandai al russo capo della baracca e quello mi disse quando canta il cuculo…

Da quando sono tornato sono felice…». Dopo questi primi lavori Mara Chiaretti torna a incrociare gli artisti con Vestito da sposa, monologo interiore di un attore mentre si trucca per lo spettacolo e riflette sull’improvvisa morte della madre interpretato da Sandro Lombardi, presentato al Torino Film Festival, …così sia sull’opera dell’artista Bruna Esposito esposta al Maxxi di Roma, e Elisa Montessori sulla produzione della pittrice.

Nel 2006, Chiaretti dirige Siluro Rosso, in cui si racconta la straordinaria avventura di Rubén Gallego, scrittore russo costretto sulla sedia a rotelle perché gravemente handicappato fin dalla nascita, creduto morto dalla madre Aurora, figlia di un membro del partito comunista spagnolo che le mentì, facendole credere che il bambino non era sopravvissuto al parto.

Cresciuto in un orfanotrofio dell’ex Unione Sovietica, Rubén riesce a resistere grazie alle tre regole che si è dato: non credere, non avere paura, non chiedere, e soprattutto grazie ai libri con i quali strisciava sotto i mobili a leggere, unica attività consentita dal suo corpo straziato:«senza i libri sarei morto». La storia di Rubén Gallego diventa straordinaria quando, grazie alla vincita di un premio come miglior giovane scrittore russo, gli viene un concesso di andare negli Stati Uniti, paese che lui definisce il più crudele del mondo ma quello in cui avrebbe voluto nascere, dove viene contattato da un produttore televisivo di reality che, in cambio dell’esclusiva di filmare l’incontro, si offre di trovargli sua madre. Così Rubén, quattro anni dopo, incontra Aurora in un bar deserto di Praga; non si aspetta nulla da lei, ma la madre lo riconosce subito e lo tiene con sé. Bellissimo.

Nel finale oltre agli altri repertori che spaziano da Freaks di Tod Browning ai cinegiornali stalinisti su Gagarin, Mara ha montato un meraviglioso spezzone di danza tra una ballerina normale e un danzatore senza gambe che chiude il documentario: un armonioso innesto di corpo dimezzato su corpo integro. Siluro rosso ha vinto il premio «N.V.Gogol in Italia» e con i soldi del premio Mara Chiaretti ha prodotto Io sono qui che mostrerà in anteprima al cinema Nuovo Sacher domani pomeriggio. È il film più personale che ha fatto, il ritratto di sua figlia Barbara che è volata via, in quel pulviscolo di stelle sparso per l’universo da cui ci arriva la sua voce, nel 1990, causa «la malattia del secolo» di cui scrive nei diari scritti in ospedale. «Per fortuna non ho filmati di Barbara né registrazioni vocali, non avrei retto», mi ha detto Mara, «ma il suo corpo è tutto nella scrittura».

Infatti, le pagine sono riprese, accarezzate quasi, in un senso e nell’altro, come leggono gli arabi, come fossero un volto o il corpo astratto della voce, la scrittura densa e minuta, le rime e gli a capo, l’ironia, e il dubbio, qualche cancellatura, non molte, e poi ci sono le foto, e c’è Sara, sua sorella, con i suoi bambini, e il padre Tommaso, critico cinematografico e teatrale morto troppo giovane, e le amiche del cuore, quelle vere, con cui tutto fu condiviso le avventure e gli errori, e gli amori, il primo e l’ultimo, e l’universo che nasce e si forma, le cellule e le stelle, e la musica e i pensieri che risuonano tra la madre e la figlia in amichevole accordo di gusti. E il gioco, che torna nell’animazione, che è sempre a cura di Loic Sturani, perché sia lieve e pacificatore il pensiero di lei e pieno di gioia di vita.