Con piglio rivoluzionario volevano uccidere il chiaro di luna. Invece, soltanto, soffrivano del classico complesso di Edipo.  «Gli artisti, per quanto d’avanguardia, hanno continuato senza posa a scandagliare il passato. Lo hanno prelevato, evocato, citato», sottolinea Claudio Spadoni, direttore del Museo d’arte della città di Ravenna e curatore della mostra La seduzione dell’antico. Da Picasso a Duchamp, da De Chirico a Pistoletto, visitabile fino al 26 giugno. «L’esposizione mira a rileggere il secolo breve andando oltre la prospettiva dominante di innovatori che avrebbero voluto dimenticare la storia per parlare esclusivamente di avvenire», spiega ancora Spadoni.

«L’arte non ha mai avuto la possibilità di recidere le radici alle proprie spalle. Il presente, se rifiutasse il passato, rinnegherebbe se stesso: domani, il presente di oggi sarà già lontano».
Il percorso di visita si apre con il Figliuol Prodigo di Arturo Martini. «L’opera è una metafora, con il suo rappresentare l’abbraccio al padre da parte di un figlio che sembrava averlo dimenticato», chiarisce Elena Pontiggia, una delle autrici in catalogo. «Basta riflettere sull’etimologia del termine per afferrarne in pieno il valore: pandere è un passato che si manifesta dispiegandosi totalmente. È un passo: un attraversare le montagne. Essere classici significa sentire una profonda amicizia con i grandi autori, non ha nulla a che fare con l’accademia».

La scultura è del 1926: due anni appena erano passati da quel Manifesto surrealista che pretendeva di svincolarsi quasi con violenza dal controllo della ragione.
Anche Dalí, con tutta naturalezza, guarda alla Venere di Milo del Louvre: le armonie del prototipo ellenistico passano tuttavia in secondo piano rispetto ai recessi dell’inconscio, che ne attuano la metamorfosi materializzandosi in robusti cassetti che trafiggono come spade il suo corpo di bronzo. E Giorgio De Chirico, che in Grecia era nato affacciato sulle acque tessale, alle pendici del Monte Pelio, in Piazza d’Italia cerca la metafisica della città ideale nelle geometrie classiche, trovando quelli che per lui dovevano rappresentare gli archetipi del nostro paesaggio culturale.
Era già accaduto con Winckelmann, che aveva scoperto il neoclassicismo dopo aver colto la rosa di Paestum e aver bevuto l’acqua antica delle bufale campane. Del passato, serve ciò che ancora è vivo. Magari per dissacrarlo, altrimenti diventerebbe impossibile emanciparsi.

Due esempi, a Ravenna, sono affiancati per raccontare quest’unica attitudine: la Venus Restaurée di Man Ray, in cui il busto in gesso della dea è avvolto da corde, e la Venus d’Alexandrie di Yves Klein, cosparsa di un luminoso blu cobalto. «La tradizione non si può ereditare», scrisse Eliot: se la si vuole, si deve conquistare con grande fatica. Così esercitarsi sulla natura morta e sulla pittura di paesaggi ha offerto la possibilità di recuperarla, senza smettere di innovare. Come accadde al triestino Arturo Nathan, morto in un campo di concentramento tedesco per le sue origini ebraiche.

Nel 1937, l’anno prima che, dal balcone del Municipio della stessa città giuliana, Mussolini leggesse le infami leggi razziali, dipinse La palude raffigurando in essa il fango nuovo dei suoi tempi. Sulla sinistra, baluardo di un umanesimo allo sfascio, una testa imperiale in marmo. Ha gli occhi inquietanti del tardo-antico, ma linee pur sempre armoniose.

Dove l’artista del Novecento più sente la necessità di un confronto con il passato è nella tipologia del ritratto. Gino Severini, nel 1934, dipinge sua moglie ispirandosi a un affresco conservato presso il museo archeologico nazionale di Napoli e rinvenuto nella casa di Pansa, a Pompei: un panettiere togato con la consorte, due borghesi ante litteram.
Leoncillo, invece, riprende un celebre topos etrusco: quello del «sarcofago degli sposi». Nei suoi Amanti antichi, della coppia sul triclinio non resta nemmeno lo sguardo arcaico degli occhi, disperso ormai su una terracotta smaltata che sembra un tronco scortecciato.

Lo scarto dal passato aumenta, inesorabilmente, con il crollo delle illusioni. Per Michelangelo Pistoletto, la Venere con mela di Thorvaldsen, a sua volta citazione neoclassica, non può che avanzare verso un cumulo di stracci colorati in direzione del muro di fondo, dando le spalle al visitatore. «La memoria è il perno intorno al quale ha cominciato a ruotare la modernità», ribadisce Spadoni. Un’attualità che dimentica il passato nega la sua stessa sopravvivenza.