Con i passi avanti nel dialogo tra il governo de facto e il Movimiento al Socialismo, la convocazione di nuove elezioni potrebbe essere davvero questione di poco. La sospensione della sessione parlamentare di martedì in cui era previsto che il Mas respingesse le dimissioni di Evo Morales ha realmente contribuito, secondo quanto aveva annunciato la presidente del Senato Eva Copa, «alla creazione di un ambiente propizio al dialogo e alla conseguente pacificazione del paese».

Così, dopo il ripristino del «normale funzionamento» dell’Assemblea legislativa, i senatori del Mas hanno presentato un progetto di legge basato su tre punti: l’annullamento delle elezioni del 20 ottobre, la designazione dei membri del nuovo Tribunale supremo elettorale e la convocazione di nuove elezioni nel più breve tempo possibile.

SARÀ LA COMMISSIONE costituzionale a valutare tale progetto insieme a quello che a sua volta presenterà l’autoproclamata presidente Jeanine Áñez, in maniera da unificare le due proposte in un unico provvedimento condiviso. Se poi il dialogo – che si sta svolgendo con la mediazione della Chiesa e della Ue – dovesse segnare una nuova battuta d’arresto, il governo, ha affermato il ministro della presidenza Jerjes Justiniano, procederebbe, ma solo come ultima spiaggia, a convocare le elezioni per decreto.

Che il governo de facto abbia fretta è più che comprensibile, di fronte a una crisi che non fa che aggravarsi. Sono saliti a 93, infatti, i blocchi stradali in tutto il paese, con conseguenze disastrose sul turismo – che registra già perdite milionarie -, sull’approvvigionamento alimentare – con il cibo che inizia a scarseggiare non solo a La Paz, ma anche nei dipartimenti di Oruro e Potosí – e più in generale sull’intera attività produttiva, con perdite previste di oltre 2 miliardi di dollari, pari a 4 punti del Pil. E nel caso in cui la crisi dovesse ancora prolungarsi – quella crisi che avrebbe potuto concludersi con l’annuncio da parte di Evo Morales di nuove elezioni – la situazione sarebbe destinata solo a peggiorare.
TANTO PIÙ dopo il nuovo massacro realizzato a Senkata, a El Alto, nei pressi dell’impianto di stoccaggio di carburante della compagnia statale Ypfb, dove agenti di polizia e militari impegnati a rimuovere un blocco stradale per permettere l’uscita verso La Paz di autocisterne con benzina e diesel hanno sparato contro i manifestanti uccidendone sei e ferendone una trentina. Senza fermarsi neppure di fronte a un medico, Aiver Huaranca, contro cui hanno fatto fuoco (senza colpirlo) mentre prestava soccorso a un ferito che sarebbe poi morto sotto le sue mani, come lo stesso Huaranca ha denunciato con la voce rotta dall’emozione.
E IN RISPOSTA AL MASSACRO, seguito da una dura condanna da parte della Commissione interamericana dei diritti umani, i manifestanti di El Alto si stanno riorganizzando per intensificare i blocchi, assicurando che non permetteranno l’ingresso a nessuna autocisterna proveniente dal Cile e dal Perù. Neppure all’interno delle forze armate e della polizia, però, la situazione appare molto tranquilla, con poliziotti e militari che si accusano reciprocamente di aver sparato a civili inermi e il governo che cerca invano di far ricadere la colpa, tanto per cambiare, sulle Farc, sui cubani e sui venezuelani. Né ha contribuito a pacificare gli animi il fatto che agenti di polizia abbiano dato fuoco alla whipala (la tradizionale bandiera multicolore delle popolazioni indigene) e tolto la sua immagine dalle uniformi, provocando un profondo malessere tra la popolazione rurale e indigena.
ED È TALE IL TIMORE di diserzioni all’interno delle forze armate boliviane – le quali avevano ottenuto da Morales non pochi privilegi – che i vertici militari hanno inviato il 14 novembre una raccomandazione agli ufficiali dell’ottava divisione dell’esercito perché vigilino sulla condotta dei cadetti e dei soldati provenienti dalla regione del Chapare, la roccaforte indigena dell’ex presidente.