Questa è la storia di Precious, Princess, Blessing e di tutte le altre minorenni abusate da parenti, «sacrificate» dalle famiglia, reclutate con violenza verso l’Europa con la promessa di un lavoro in un negozio, forse.

È la storia delle nuove schiave che incrociamo nelle strade delle nostre periferie urbane: ragazzine spesso talmente piccole da essere convinte che prostituirsi significhi fidanzarsi con ricchi bianchi che le aiuteranno a ripagare il debito del viaggio (5 milioni di naira, 25 mila euro circa), che in Italia sbarcano in maggioranza dalla Nigeria attraverso la Libia (11.009 donne e 3.040 minori nel 2016) secondo il Rapporto OIM sulla tratta di esseri umani attraverso la rotta del Mediterraneo centrale.

Le ragazze si affidano a un boga (accompagnatore) che le condurrà in autobus in Libia dove, se non ammazzato prima, tenterà di imbarcarle verso l’Italia. Questo nel migliore dei casi; altrimenti resteranno sequestrate (e abusate) per mesi in attesa di conquistare la «libertà» di partire grazie a favori sessuali alle guardie oppure all’arrivo del riscatto da parte dei mercanti di schiavi già «sponsor» del loro viaggio.

Ormai sappiamo che ogni emergenza, se declinata al femminile, peggiora: nel mondo circa il 51% delle vittime di tratta è donna e è destinata allo sfruttamento sessuale (72%).

Assistiamo negli ultimi mesi a una proliferazione della detenzione di massa in Libia, eppure donne, minori, vittime di tratta, rifugiati sarebbero i «tutelati speciali» di risoluzioni ONU, Dichiarazioni dell’Unione Europea, Codice Penale italiano. Invece, dopo l’accordo di Minniti (Stefano Catone, Andrea Maestri, L’uomo nero, 2018) lucrano sulla detenzione gli stessi trafficanti che prima lucravano sulle partenze (600 mila/1 milione i detenuti stimati dall’OIM; 34 i centri di detenzione secondo l’UNHCR).

Uno scenario che mostra come il solo diritto non riuscirà a scongiurare catastrofi umanitarie e che ci costringe a tracciare un percorso politico (Patrizio Gonnella, Il diritto non ci salverà, 2017).

Salvate in mare sulle coste italiane, le ragazze dichiareranno di essere maggiorenni perché così indottrinate dai loro aguzzini, saranno affidate alle «Madame»– se incinte, rischieranno di essere ri-trafficate in Libia, oppure obbligate a abortire – che le costringeranno a prostituirsi 12 ore al giorno per rimborsare il debito contratto, costantemente gonfiato da spese di vitto e alloggio fuori mercato. Storie come questa, raccolte sulle rive del mare, parlano a chi pensa che tracciare un confine è un gesto originario di appropriazione, un atto di violenza e di guerra; raccontano come, nella fase della globalizzazione e della crisi, i confini si flettano verso l’interno dell’Europa seguendo i migranti, e verso l’esterno coinvolgendo paesi confinanti come Turchia e Libia (M. Ilardi, S. Scandurra, Muri, 2017).

Compare in questo stesso mare il mito della frontiera americana: sui borders agiscono trafficanti, poliziotti, marinai, attivisti, giornalisti, medici; si sviluppano pratiche di resistenza, attraversamenti che sfidano lo spazio europeo a riorganizzarsi mettendo in discussione lo stesso diritto di libera circolazione dei suoi cittadini e provocando la crisi del regime di controllo dei confini. La loro militarizzazione e esternalizzazione, l’invenzione della «detenzione umanitaria», sono gli elementi reali di crisi, l’emergenza democratica su cui sono sospese le questioni moderne della guerra e della pace. (Sandro Mezzadra, Terra e confini, 2016)

Intrappolare le vite tra il mare di fronte e la guerra alle spalle, è un crimine di pace, agito in prevenzione della minaccia al nostro benessere, reso possibile da situazioni di ingiustizia istituzionale. Quali sarebbero i rischi, se una riforma europea del lavoro, immigrazione e asilo, costituisse un’alternativa ai trafficanti? (Maurizio Albahari, Tra la guerra e il mare, 2017). La costruzione di una narrazione del Mediterraneo, oggi ridotto a cimitero, con un progetto editoriale (Mediterraneo costa sud/manifestolibri, da me condiviso con Francesco Martone), nasce per dare dignità politica alla voce di migranti dalle cui esistenze dovrebbe ripartire un progetto democratico che renda inconcepibili tali crimini (Alessandro Dal Lago, Blind killer, 2018).

Come riuscire nell’impresa ce lo suggerisce Raffaele Palumbo, che su questa costruzione ha scommesso un festival in svolgimento in questi giorni, «Mediterraneo Downtown 2018» (3-6 maggio 2018, Prato).

Cosa cambierebbe se il nostro mare diventasse effettivamente un racconto condiviso? Se adottassimo buone pratiche per condividere il nostro Eldorado?

Sarebbe la rappresentazione di un auspicabile tentativo fatto di politiche comuni, cooperazione permanente, interscambi di persone, merci e saperi, con regole del tutto inedite. Guardando a quanto accade oggi a un’Europa che si fa fortezza con tanto di fossato per i coccodrilli, una pura utopia, certamente.

Ma, un nuovo racconto che ci parli di questo continente liquido – come lo chiamava Braudel – potrebbe farci comprendere il destino comune che condividiamo; aiutarci a costruire un punto di vista e un’identità di popoli del Mediterraneo; e forse, con il tempo, contribuire ad avvicinarci all’utopia di un Mediterraneo di pace.

Ma l’«Eldorado» non vuole condividerlo nessuno e finché resterà tale, (finché i nostri stili di vita resteranno uguali) ci sarà sempre voglia di fortezza, di difesa egoistica, di muri e di respingimenti.