Chissà se per la loro «creatura» le sorelle Giussani avevano previsto il successo planetario che l’ha accompagnata rendendola un’icona in tutto il mondo. Quando Angela Giussani pubblicò Diabolik aveva in mente un prodotto «popolare» anche nel formato che per questo aveva scelto tascabile. Era il 1962, a ispirare questa sua scommessa almeno così dice la leggenda, erano stati i viaggiatori che affollavano la stazione Cadorna di Milano e che lei vedeva ogni giorno dalle sue finestre: come rendere più lieve il loro tragitto in treno verso i luoghi di lavoro? Cosa offrirgli per passare il tempo che fosse realizzabile con la sua casa editrice, l’Astorina, da lei fondata qualche anno prima – affiancando l’ Astoria del marito, Gino Sansoni? Ci aveva già provato con Big Ben Bolt la serie a fumetti di John Cullen Murphy ma era stato un fallimento, ci voleva forse qualcosa più sintonizzato alle atmosfere di quell’Italia del boom che scintillava come il ghiaccio nel bicchiere del Campari: qualcosa di eccitante e insieme trasgressivo. Un eroe negativo, per esempio, che nel panorama italico(e bigotto) di allora mancava, nel quale unire il feuilleton e la sua passione per Fantomas, e soprattutto il gusto per le sfide che apparteneva di quella ragazza della borghesia, classe 1922, modella per la Lux prima del matrimonio con Sansoni, sostenitrice di molte battaglie come quella per il divorzio, nel ’74 proprio coi suoi fumetti.

SI DICE che il nome del «Re del terrore» arrivava da un fatto di cronaca nera, versione smentita nel libro di Davide Barzi dedicato alle due sorelle (Le regine del terrore) in cui si spiega come Angela, a cui poco dopo si unirà nel lavoro la sorella Luciana, era partita dal nome Diabolo. Poco importa: Diabolik era nato, spietato e implacabile come lo descrive il suo nemico, l’ispettore Ginko – il nome pare sia una variazione di quello del marito della stessa Luciana da cui si sarebbe separata. Accanto a Diabolik a partire dal terzo numero, appare Eva Kant, ereditiera bionda e con gli occhi smeraldo somiglia a Grace Kelly (e molto nello spirito di indipendenza femminile anche alla sua autrice), i due saranno protagonisti di centinaia e centinaia di numeri, letti e amatissimi da più generazioni, oggetto di studi, saggi, marketing e moltissimo altro. Un mito inarrestabile a dispetto dei detrattori della prima ora – lo accusavano di essere «troppo violento» – ma le due sorelle ci hanno sempre tenuto a sottolineare la natura di Diabolik – «è un criminale non un giustiziere» – e la scelta di un fumetto adulto, sexy, crudele nella cui grana si scorgeva il riflesso della società del tempo coi nei suoi equilibri di denaro e di potere.

CHE FILM è allora questo dei Manetti Bros (Marco e Antonio), tra i titoli risucchiati dalla pandemia, annunciato e scomparso, infine in sala giovedì come scommessa della stagione natalizia? E anche ritorno di Diabolik sullo schermo dal 1968, anno dell’omonimo film di Mario Bava. A ispirare i due fratelli registi, pure loro lettori appassionati del fumetto, è proprio quel numero 3 cruciale col primo incontro tra i due personaggi e il salvataggio di Diabolik dalla condanna a morte grazie a Eva, insieme al più recente L’arresto di Diabolik: il remake di Mario Gomboli (erede artistico delle sorelle Giussani) e Tito Faraci. Più, come hanno detto, altre suggestioni, le loro le citazioni cinefile, molto Hitchcock – da Vertigo nello chignon biondissimo di Eva Kant, alle corse sulla scogliera di Caccia al ladro, e anche quel «gruppo di lavoro» – Mastandrea, Piergiorgio Bellocchio, Claudia Gerini che fa parte della loro storia (e che è una cosa bella).
Quello che manca è invece l fuoricampo dell’epoca – e con esso il potenziale seduttivo di Diabiolik (che è Luca Marinelli) e della sua narrazione – se si esclude Eva (Miriam Leone), che appare la più risolta e riuscita esprimendo appunto quello stacco con le altre figure di donne bon ton ingabbiate nel ruolo imposto dalla società dell’epoca – ne è espressione perfetta la moglie di Diabolik (Serena Rossi), tutta casa, attesa, capelli cotonati, ingenuità.

EVA INVECE Lady (dark) dal passato ovviamente oscuro, senza timore dei criminali come Diabolik dai quali a dispetto dei racconti terribili che lo circondano– o forse per questo – è attratta ne diviene amante, compagna, complice da subito alla pari – nonostante qualche resistenza di lui. Dicono i due registi: :«Diabolik lo sentivamo così, e abbiamo girato la versione cinematografica delle sue storie che ci immaginavamo, e che era esattamente questa». Cosa è allora che non funziona? Forse si può cominciare dall’interpretazione di «popolare» del fumetto resa qui nel malinteso di un «doppio legame» con la serialità (italiana) televisiva, un cast infarcito di star della fiction – da Serena Rossi a Alessandro Roja – tutti fuori parte e pessimi come mai – sarà l’effetto dell’oltre-piccolo-schermo nostrano che assuefà il proprio pubblico a prodotti di scarsa qualità. Prima ancora c’è però un’impasse di regia (e di scrittura) che finisce per coinvolgere un po’ tutto – Marinelli è maldestro e senza fascino, Mastandrea un impacciatissimo Ginko. Proprio Hitchcock del resto diceva che il personaggio è nella sceneggiatura. Dunque? È che i Manetti rispetto al testo non scelgono una direzione, disseminano qualche suggestione vintage – i meravigliosi abiti di Eva, gli scorci della metropoli frenetica, gli interni high society ricostruiti con cura di dettagli – ma restano sempre sulla soglia della loro materia, e nel cambiare al fumetto il segno non sanno restituirne la trasgressione nel contemporaneo. La loro visione – e la fedeltà non c’entra – appare più come un limite in cui il fascino di quell’universo evapora come il ghiaccio nel bicchiere – del solito Campari? – sciolto anzi tempo.