Una delle magnifiche ossessioni della letteratura del secondo Novecento – romanzo e poesia – si posiziona certamente attorno a ciò che potremmo definire lo gliommero genealogico, l’angoscia dell’origine, la perturbante voce dei morti, il loro volerci trattenere, stringerci e quasi chiamarci a sé. Essi, nel mentre non ci lasciano, chiedono fiato, respiro, parola, atti di riparazione e di giustizia. Ma le suggestioni non si fermano a questa altezza. «È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (…) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (…). Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci»: così Pasolini, ad esempio, nel suo celebre saggio sul montaggio cinematografico poi incluso nel volume Empirismo eretico del 1972, e allora senza meno il nuovo romanzo di Paolo Di Stefano, nato ad Avola (in provincia di Siracusa) nel 1956, può ascriversi a un ambito di poetica e di pratica letteraria non distante da quell’assunto fin troppo e tragicamente inevitabile in quel secolo ulcerato dal ferro, dal fuoco e dalle sanguinose tempeste mondiali
Noi (Bompiani «Narratori italiani», pp. 608, euro 22,00) è un romanzo famigliare che rimanda, proprio a partire dal titolo, a una storia di destini che si incrociano e si intrecciano – una storia che si protrae lungo l’arco di molti decenni, una memoria anche indiretta e tramandata al narratore da coloro che c’erano, dai testimoni e dai protagonisti di una epopea che ovviamente non ha nulla di epico e di eroico (come lo stesso autore sottolinea) e che semmai mostra la propria esemplarità nell’essere stata simile, seppure unica come ogni vicenda, a quella di tanti altri, uomini e donne di generazioni che il trascorrere del tempo ha inevitabilmente decimato – il tempo appunto che nella narrazione procede a fisarmonica tra passato e presente, in una sorta di linearità scheggiata, imperfetta, decostruita e ricomposta.
Il passato abita nel cuore del Novecento, a ridosso e dentro il secondo grande conflitto mondiale – con i pesanti e indiscriminati bombardamenti anglo-americani del luglio e dell’agosto del 1943 che in Sicilia provocarono migliaia di morti e di mutilati tra i civili – e poi nel difficile dopoguerra, quando dall’isola si ricominciò a emigrare in massa verso l’Italia del nord e le nazioni centroeuropee. Sotto tale aspetto, occorre sottolinearlo subito, le pagine di Di Stefano sono tra le più attendibili ed efficaci mai scritte in narrativa a rappresentare quel clima e quegli eventi che segnarono per sempre la vita di diverse generazioni di siciliani, dei nonni, dei padri e dei figli.
«Ormai sono tutti morti», dice e continua a ripetere la madre di Paolo ovvero del narratore, mentre le ombre, le figure, le azioni, i caratteri e le parole di chi non c’è più non smettono di declinare e di riaffiorare, richiamati a dare sostanza di vita al testo del racconto e ai fatti che lo costituiscono, tra Sicilia, Lombardia e Svizzera. Le voci parlano ovviamente in una prosa che non nasconde i turbamenti, le ansie, le insofferenze, i grumi di dolore, le ironie, gli abbandoni di asciutto sentimento. Tutte le voci, tranne una che invece si esprime, potremmo dire, poeticamente, e che ha la funzione del coro nelle tragedie antiche. Claudio, il fratello minore di Paolo, è morto a cinque anni nel 1967 per una leucemia. È questo bambino che vede e sa tutto, è lui l’interlocutore del narratore, il suo alter-ego, l’antagonista necessario («È la voce che mi insegue o sono io a inseguirla? Mi chiedo da tempo: chi è l’inseguito e chi è l’inseguitore?»), è a lui che il narratore di continuo si rivolge. Le parole del piccolo Claudio, stampate in rosso, costellano il libro, lo attraversano, lo feriscono, lo illuminano. «Da qui sento / le voci / che voi non sentite più»: è questa la sua sapienza e il suo smacco ai vivi. E poi: «Lungamente / siete riusciti a resistere / al mio non esistere / ma io esistevo, / te ne sarai accorto, / fratellino, / che me ne sono andato / per restare / più a lungo del previsto / e anche del non previsto. / Chi è che ha resistito / di più tra me e voi / o tra me e te, non saprei. / È stata una bella sfida / che dura ancora».
Nella nota posposta a Noi, Paolo Di Stefano ricorda ai suoi lettori come tutte le sue precedenti prove narrative, a partire da Baci da non ripetere (1990), altro non siano state che tappe di avvicinamento o addirittura redazioni preparatorie – a voler forse significare la chiusura di un conto rimasto a lungo aperto e, insieme, per lui, l’avvio di una stagione nuova. Sempre se, come qui, rempaira sempre amore.