Difficile dire se sia stato il calciatore più grande, Alfredo Di Stéfano, mancato per infarto in un ospedale di Madrid il 7 luglio alla bella età di 88 anni. Non disponeva delle folgori balistiche di Diego Armando Maradona né del senso ubiquitario del gol che rifulgeva nelle acrobazie di Pelé e, però, del campione assoluto aveva proprio tutto, un genio innato che sapeva prodigare gioco e schemi con tale naturalezza e non chalance da simulare l’armonia musicale o la cadenza fatale di un metronomo.

Dunque è probabile che se non il più grande e nemmeno il più forte, egli sia stato, semplicemente, il più classico tra i campioni del secolo calcistico. Quanto alle origini, lo si sarebbe detto un apolide latino: figlio di emigranti capresi, nato a Buenos Aires il 4 luglio del 1926, si era formato nel River Plate, presto era passato ai Millonarios di Bogotà e di lì al Real Madrid franchista di Santiago Bernabeu dove per chiunque Di Stéfano sarebbe diventato Di Stéfano.

Undici anni tra le merengues, il suo tabellino è impressionante come il palmarès: qualcosa come 332 marcature in 372 incontri, quasi un gol a partita, otto campionati spagnoli vinti, cinque Coppe dei Campioni conquistate in sequenza fra il ’56 e il ’60, una Coppa Intercontinentale e, riconoscimento persino avaro circa tanto campione, due Palloni d’Oro nel ’57 e nel ’59. Altrettanto difficile dire quale fosse in realtà il suo ruolo: originariamente centravanti (i tifosi lo chiamavano saeta rubìa per la chioma rossiccia e scarruffata dalle sue folate), via via il suo raggio d’azione era venuto dilatandosi fino ad occupare tutto il campo da gioco o, se non altro, la zona vasta che si interpone fra un’area di rigore e l’altra.

Non si può dire fosse il centrocampo ma, per lui, tanto una rampa di lancio quanto la corsia di scorrimento, che infatti percorreva avanti e indietro, a ritmo implacabile, senza mai dare l’impressione di uno sforzo o del cambio di marcia che invece, entro i sedici metri, lo rendeva imprendibile. Di Stéfano, nella maturità dei suoi trent’anni, è colui che i sudamericani chiamano hombre orquestra, lo è per definizione e, anzi, per antonomasia: già stempiato fino alla calvizie, normotipo longilineo (alto 1 e 78 cm, per 80 kg di peso-forma), si affida ai fondamentali del gioco, arresto/lancio/tiro, vietandosi qualunque gesto ozioso o autocompiaciuto e imponendosi la più spoglia severità. Il che vuol dire l’obbedienza ad uno schema esclusivo, il quale prevede la ricezione di un passaggio, l’apertura profonda al compagno smarcato e, volentieri, la chiusura a triangolo per la diretta conclusione. In realtà il suo gioco è così essenziale da sembrare inapparente, “l’arte che tutto fa nulla si scopre”, il motto di un poeta classico potrebbe riferirglisi alla perfezione.

Lineare, costante, anti-individualista, anti-demagogico, il suo calcio è tutto devoluto alla squadra anche quando pretende per sé la licenza della conclusione a rete. Non che fosse un filantropo: pare si sia speso perché il Real cacciasse il grande Didì, un specie di Cartesio brasiliano, colpevole di non assoggettarsi al suo carisma e, peggio, di non ritornargli la palla a comando.

E’ comunque il baricentro di una grande squadra (si potrebbe dire di un mito da esportazione, paradossalmente cosmopolita, della hispanidad allora fascista e taurina) ma soprattutto è la punta di diamante di un quintetto d’attacco da tuoni e fulmini: sulla destra c’è Kopa, passaporto francese ma oriundo polacco, figlio di povera gente e comunista, ala che va dritta verso il fondo per crossare in area; a sinistra un basco velocissimo, Gento; al centro, intorno a lui, due ottimi mezzofondisti, servili quel tanto che basta, cioè Mateos e Rial. Solo per l’ultima finale di Coppa dei Campioni (a Glasgow, il 18 maggio del ’60, contro l’Eintracht di Francoforte, stracciato per 7 a 3) figurerà chi è il vero deuteragonista di Alfredo, vale a dire Ferenc Puskas, ex colonnello e transfuga della Honved di Budapest, centravanti truccato e perennemente sovrappeso ma dal sinistro letale: quella partita è l’apoteosi di entrambi, Alfredo lascia al compagno la bellezza di quattro gol ma riserva a se stesso ben tre marcature.

Si tratta dell’inizio di una fine che non può dirsi affatto ingloriosa, se così ne parla uno scrittore e tifoso da sempre, Javier Marìas, nel libro che riunisce i suoi ricordi di appassionato (Selvaggi e sentimentali. Parole di calcio, traduzione di Glauco Felici, Einaudi 2002): “Quand’ero ancora bambino, il Real Madrid mandò via Alfredo Di Stéfano dopo una sconfitta nella finale della Coppa Europa contro l’Inter. Di Stéfano era così emblematico che inizialmente risultava inconcepibile la nostra squadra senza di lui, soprattutto se, come avvenne, non si ritirava ma continuava la sua attività: firmò con l’Espanyol di Barcellona.

Per alcune giornate seguimmo i risultati della sua nuova squadra con attenzione, vedemmo che don Alfredo segnava doppiette di goal e la rabbia ci invadeva ancora di più. Ebbene, fu tale la mia indignazione e quella dei miei compagni merengues che decidemmo di passare al club barcellonese, o piuttosto di essere di Di Stéfano e non tanto del Madrid”.

La compostezza, la sua stessa autorevolezza ne hanno fatto col tempo qualcosa di diverso da un mito e al contrario un evergreen cioè, ancora una volta, e nella piena accezione, un classico del football. Stravedeva per lui Gianni Brera che in un vecchio manuale (Il mestieredel calciatore, 1972) riferisce un aneddoto curioso, senz’altro profetico, risalente al passaggio ai Millonarios, dove il giovane Alfredo si trova di fianco, fra gli altri, ad Adolfo Pedernera, attaccante argentino di classe nitidissima: “Un giorno Pedernera, ineguagliato bombardiere bonaerense, vide Alfredo fare qualcosa del genere: tornare nella propria area, conquistare palla, scambiare con il mediano e chiedere triangolo, riprendere palla, correre a distese falcate verso la porta avversaria, toccare in corsa senza sbilanciarsi di un ette, chiedere di nuovo triangolo e balzare sulla palla per sparare imparabilmente in rete. […] Visto in azione quel mostro di abilità e di fondo atletico, Pedernera gli andò vicino e gli disse: Ohei ragazzolo, di questo passo tu rovinerai il mestiere a todos, e voleva dire che facendo con tanta abilità quelle prodezze, in fondo sminuiva il calcio”.

Viceversa, non ha avuto una simile carriera da allenatore, fra la Spagna e l’Argentina, se si eccettua una Coppa delle Coppe vinta col Valencia, ma è noto che i grandi giocatori o i troppo grandi giocatori, fatte salve alcune vistose eccezioni, non intendono il gioco dei mediocri e perciò della maggioranza degli atleti che sono loro affidati, non vedono la sofferenza dei rozzi e dei puri muscolari. Di Stéfano non ha fatto eccezione, ricevendo comunque la pubblica stima di alcuni tra gli assi di sempre ed in particolare da Diego Armando Maradona che, nella sua autobiografia, lo definisce alla lettera “Il Maestro dei Maestri”.

Era una persona normale, cordiale, anche da vecchio amava frequentare il quartiere del suo stadio, a Chamartìn, e le identiche trattorie di vino e tapas che aveva scoperto agli esordi con la camiseta blanca. Sì, Alfredo Di Stéfano è stato il classico dei classici eppure, lui che ha militato in due nazionali, ovviamente l’Argentina e la Spagna, non ha mai disputato un Mondiale in vita sua.