Un poeta si chiese molto tempo fa di quanta patria avesse mai bisogno un uomo. Ma quel pensiero formulato in tedesco (Heimat di solito è tradotto con «patria») in italiano significa molto meno o paradossalmente molto di più. In Italia quella parola è tanto equivoca e carica di lutto da risultare impronunciabile e da essere infatti permutabile con l’immagine più normale e domestica (ma anche più concreta e indelebile) di «casa». La casa non soltanto è uno spazio ambiente, un perimetro di necessaria protezione della esistenza individuale, ma è il segno tangibile del tempo che trascorre, del suo passo implacabile e persino del suo fantasma itinerante.
Il bellissimo libro che hanno composto lo scrittore Paolo Di Stefano e il fotografo Massimo Siragusa, Respirano i muri (introduzione di Goffredo Fofi, Contrasto, pp. 151, € 22,00) muove da una simile consapevolezza come dalla necessità di dare una forma a quanto il presente propone nei termini sfigurati della precarietà e della obsolescenza. Bisognerebbe aprire il libro dalla seconda parte che si intitola Le case (e le cose) perdute. Qui, a una sequenza di interni fatiscenti, sgangherati, per incuria quasi decolorati (e sono minime discariche del quotidiano, reperti di una disfatta, di un mondo totalmente disertato), si associano anonime voci di quanti una casa non hanno mai avuta o hanno dovuto presto abbandonarla, voci di vecchi collocati all’ospizio, di migranti che non ce l’hanno fatta, di uomini e donne senza più un futuro, di individui che il lessico delle società affluenti definisce per pura ipocrisia i déplacés. Pure se non la rimpiangono, tutti costoro non possono permettersi una casa in quanto non possono permettersi un destino, e viceversa: quegli interni abbandonati, cui la loro voce arriva fuori campo, sono soltanto dei fondali provvisori, i set di un transito che sembra per fatalità procedere da un prima evanescente (un passato che si cancella, si abbuia) verso un dopo non meno improbabile se non nella sua nera immobilità.
Non è un caso che anche nelle immagini ospitate nella prima parte del volume non compaia mai la figura umana. Sono esterni assolati, dimore di un Sud che si presume antico, dove le tracce esclusive della vita umana sono strumenti artificiali, pròtesi di un potenziale altrove e dunque automobili parcheggiate, struggenti vasetti di fiori ai balconi o antenne paraboliche fra i coppi dei tetti. La luce è piatta, verticale, e pare propagarsi unanime (nella trafila che associa Catania e Napoli, Naxos e Avola, Enna e Messina) nel mosaico di un effettivo neo-Sud che non ha nulla di folclorico o di atavico ma semmai reca le tracce di presenze divenute, ancora una volta, invisibili e anonime. Chi voglia dire «io», guardandosi all’intorno, non può che farlo da un altrove percependo sia il peso di un silenzio costernato sia la responsabilità di un privilegio. Il che significa dare voce a ciò che è muto, confitto e murato nel tempo, al prendere la parola dove altri non potrà permettersi di farlo.
Il racconto autobiografico di Paolo Di Stefano, Le case, le cose che apre il volume, è il tracciato di una migrazione e dei suoi ciclici ritorni, un romanzo endofamiliare che via via diviene Bildungsroman, dove appunto «patria» è sinonimo di casa e anzi di tutte le case abitate da un figlio di migranti tra Avola (lo scrittore vi è nato nel ’56), Mandello del Lario e Lugano, la città in cui ha compiuto la sua formazione. «Che cosa si salva di una casa?», si chiede a un certo punto. Una eredità sinestetica, è come rispondesse, una combinazione di odori/sapori/impressioni acustiche prima che una serie di istantanee seppiate dal tempo, ovvero è il patrimonio sensoriale, primordiale, che non decide il senso di una vita ma ne tratteggia o ne allude retrospettivamente la parabola. Il luogo infatti non decide di alcuna identità (che è sempre un elemento rigido, inerte, volentieri reinventato) ma favorisce una osmosi, uno scambio, e dirime perciò una specifica, in sé irripetibile, esperienza dell’essere al mondo. La metafora della respirazione («Respirano i muri» è già l’incipit) torna nel racconto alla maniera di una variazione musicale: «Respirano i muri come respirano gli uomini le donne i bambini. Respirano le cose, le case, e le case inspirano le nostre parole che non sempre diventano memoria. Respirano le case, assorbono l’aria, il fiato, l’alito, l’odore di chi le abita, gli urli, i pianti, le risate, i corrugamenti facciali, i gesti e gli sguardi dei vecchi».
È intorno a questo filo di resistenza sensoriale che può riavvilupparsi il film di un’esistenza, nel mare dall’odore «stantìo» percepito dai muri antichi di Avola, più tardi nella «serenità irreale» del lago a Mandello, infine nel piccolo alveare, gremito di monelli insolenti, a Lugano, oltre il cui perimetro torna l’immagine dei genitori, l’effigie di un fratello troppo presto perduto, il corteo affollato dei parenti, il flash redivivo delle prime amicizie e dei primi amori. (È come se la pagina attuale di Di Stefano indirettamente suggerisse al lettore un aut-aut: o la «memoria» è tutto questo, cioè qualcosa di concreto, esperito, letteralmente respirato, o essa non è proprio nulla se non un flatus vocis, volatile e ambiguo alla pari di un qualunque costrutto identitario. Peraltro è la lezione che già proveniva da un libro straordinario, uno dei più belli e intensi dei nostri ultimi anni, il suo La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956, Sellerio 2011, dedicato alla tragedia in miniera di lavoratori italiani emigrati, per lo più meridionali, siciliani). Quanto a tutto ciò, in clausola alla sua partecipe introduzione Goffredo Fofi scrive che «respirare le case è l’indispensabile apprendistato per riabitare le strade», vale a dire che nessun pensiero, nessuna parola consistono se non sanno tradursi in una azione o, nel qual caso, in una precisa testimonianza. La casa è un luogo per antonomasia, anzi è il luogo iniziatico, sussista o meno, e per chiunque. La casa è quel luogo, e nessun altro, se Paolo Di Stefano scrive nel congedo: «Perché raccontare questa storia perduta e lontana? Perché Avola è sempre lì, e anche casa di nostra madre è lì che ancora respira l’aria che soffia dal mare».
Molti anni fa un grande poeta italiano, Franco Scataglini, quando ancora non si sapeva cosa fosse la globalizzazione ma veniva intanto meno la diade secolare di centro/periferia e insieme di città/provincia, intuì che il luogo, qualsiasi luogo, valesse non tanto di per sé ma per il nucleo di verità accessibile alla coscienza e pertanto alla parola di ognuno: «Dove vivi ogni giorno, quello è ciò di cui vivi e che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda: un luogo alienato, si capisce, come tutti i luoghi della terra, senonché l’alienazione è dell’uomo e nei luoghi, anche i più desolati, c’è sempre un’ombra di beatitudine immemore» (L’aliquid della Residenza, in AA.VV, Poesia diffusa, a cura di Fabio Doplicher e Umberto Piersanti, Shakespeare & Company 1982). È come se dicesse, Scataglini: non importa se sei venuto al mondo ad Avola o a New York ma invece importa che ne è di te, della tua parola a partire dal luogo che è quel luogo, sintesi di spazio-tempo, e nessun altro al mondo. Scataglini la definiva «residenza» e la sua non era affatto una risposta, tanto meno predeterminata, ma era appena una domanda e forse la più essenziale.