Nella mia lingua d’origine, il Farsi, non ci sono marcatori di genere. La sua grammatica non contempla il sesso di chi parla. Né gli articoli, né i verbi, né gli aggettivi vengono declinati secondo la divisione tra maschile e femminile. I nomi sono neutri. Le cose del mondo e della Natura, gli oggetti e i concetti non hanno sesso. Perché dovrebbero? Sin dal mio arrivo in Francia, sin da quando ho iniziato a parlare il francese, sono turbato/a da ogni singola frase in cui la lingua francese mi obbliga a definire il mio genere.

Questa costante assegnazione di un genere nel linguaggio e nella comunicazione solleva numerose questioni e difficoltà. E se io volessi parlare di me in modo neutro? Che cosa significa essere essenzialmente definiti dal proprio genere e doverlo esprimere in ogni momento? Perché non cambiare genere da una frase all’altra, da un momento all’altro, da un giorno all’altro?

Cosa mi obbliga ad avere un sesso? È una costrizione civile? Sociale? Linguistica? Politica? Filosofica? Biologica? Economica? Psicologica? Scientifica? Cosa determina il mio genere? Il mio sesso biologico? Gli ormoni?

Il genere che sento, nella mia carne, nella mia mente, è mio? Il sesso con cui gli altri mi identificano? Le mia decisione personale? La mia soggettività generica? Il modo in cui mi esprimo in francese? I miei organi?

In francese, Vagin è maschile. Bronco è femminile. Labbra è femminile. Occhio è maschile. Pene è maschile. Utero è maschile. Petto è femminile. Clitoride è maschile. Piede è maschile. Fegato è maschile. Ascella è femminile. Cuore è maschile. Lingua è femminile. Polmone è maschile. Globulo bianco è maschile.

Quanti dei miei organi sono femminili e quanti maschili? Io sono di genere femminile nonostante la mia vagina sia maschile? Quale magica finzione sta cercando di trasmettere la lingua francese attraverso questa assegnazione sessuale di parole e cose?

Nella mia lingua d’origine, il Farsi, la parola genere – «jens» – ha due utilizzi differenti: applicata agli esseri umani e agli animali, designa il loro sesso biologico, come per gran parte delle lingue. Applicata a oggetti e cose invece, designa la sostanza di cui sono fatte. Per esempio, il «genere» di un tavolo è il legno. Dunque ho sempre pensato al genere come un qualcosa di materiale e non come un’identità di sesso.

Di quale sostanza è fatta la parola «genere»? Nelle lingue latine e nel Farsi (sono cugini linguistici, entrambi provengono dalla famiglia indoeuropea), la parola «genere» proviene da comuni radici, il sanscrito «Janah», che significa «uomo, razza». In greco, la radice «gen» o «gon» produce il verbo «gignomai», che significa «diventare, essere nato», e l’ambito lessicale del greco «genos» e del latino «genus», che esprimono origine, discendenti, nascita, generazione, etc.

Gene, Genesi, Genealogia, Genetica, Genocidio, Genitali, Genio, Genitore, Gentile, Gentilezza, Generosità, Generico… Tutte le parole che derivano dalla radice «gen» esprimono chiaramente lo sviluppo e gli attributi della vita, della natura e dell’essenza della materia viva, i suoi cambiamenti e le sue trasformazioni. L’ambito lessicale di «gen / jens» è multiplo, diversificato e ricco, ma alla fine designa un’unità, un’essenza della vita materiale: molteplicità nell’unità, l’unione della diversità. Per me questo è il genere: unione e unità. (Ottobre 2015)

 

note biografiche

Sorour Darabi è un artista iraniana/o autodidatta che vive e lavora a Parigi. In Iran, prima di trasferirsi in Francia, ha fatto parte del CCD, organizzazione indipendente che all’interno del festival Untimely a Teheran ha ospitato il suo lavoro. La sua ultima produzione è Savušun (2018), un’ode sull’affetto e la vulnerabilità, ispirata alle cerimonie funebri del Muharram (importante festività islamica che nel mondo sciita commemora la battaglia di Kerbala), dove Darabi solleva domande sul dolore, la paura e la sofferenza.